Controversie di Lavoro - CSDDL.it - Centro Studi Diritto Dei Lavori Centro Studi Diritto dei Lavori - Bisceglie - A cura dell'Avv. Antonio Belsito e del Prof. Gaetano Veneto http://www.csddl.it/csddl/contenzioso-del-lavoro/ Fri, 12 Mar 2021 13:00:53 +0000 Joomla! 1.5 - Open Source Content Management it-it Conciliazione giudiziale: natura negoziale o processuale? http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/conciliazione-giudiziale-natura-negoziale-o-processuale.html http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/conciliazione-giudiziale-natura-negoziale-o-processuale.html

CONCILIAZIONE GIUDIZIALE

Natura negoziale o processuale?

 

di Mariangela D’Abramo

 

articolo già pubblicato sulla rivista scientifica telematica www.dirittodeilavori.it, anni VI n. 2, giugno 2012, edita da Cacucci, Bari 

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info@codexa.it (di Mariangela D'Abramo) Rassegna giurisprudenziale Thu, 28 Jun 2012 09:22:39 +0000
Bandiere di guerra ed art. 18…salvo intese http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/bandiere-di-guerra-ed-art.-18-salvo-intese.html http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/bandiere-di-guerra-ed-art.-18-salvo-intese.html

Bandiere di guerra ed art. 18…salvo intese

 

Clint Eastwood ha prodotto e diretto, tra gli altri, due film il primo del 2006 Flags of Our Fathers è un film basato sull'omonimo libro, che descrive la battaglia di Iwo Jima dal punto di vista dei marines americani. Il secondo film, intitolato “Lettere da Iwo Jima”, ricorda la stessa battaglia, riportando il punto di vista giapponese, cioè l’ottica dei perdenti.

Senza attendere anni, già tra qualche giorno potremo leggere interpretazioni del tutto contrastanti sulla “battaglia” dell’art. 18…si parva licet.

“I soliti noti”, i banchieri, approfittando della cortina fumogena più o meno abilmente diffusa nell’informazione, attraverso tutti i mass media, dello scontro tra parti sociali e Governo sui problemi del mercato del lavoro, con un rapido colpo di mano, hanno reinvestito i 29 miliardi messi a disposizione dalla BCE. Si è, così, preclusa per le piccole e medie imprese la possibilità di riprendere respiro con l’accesso al credito, mentre le banche hanno guadagnato lo spread (questa volta sì!) tra l’1% pagato e il 4,5% incassato, investendo  e speculando sul nostro debito pubblico in maniera piratesca e da veri avvoltoi: altro che bandiere agitate o ammainate sulla spiaggia di Iwo Jima da americani vincenti e giapponesi perdenti!

In questi mesi, attraverso decreti ottimisticamente chiamati “Salva Italia”, “ Cresci Italia”… e chi più ne ha più ne metta, sembra che l’attività di formazione delle leggi attraverso il normale iter di democrazia parlamentare sia caduto in un pericoloso torpore. Bisogna dire, tuttavia, che la giusta scelta del nostro Capo dello Stato, quella di sospendere temporaneamente l’ordinario “sclerotizzato” percorso della democrazia parlamentare, dopo una paurosa parabola verso il disfacimento delle Istituzioni, passando per ridicole sovraesposizioni del precedente Governo e del suo Capo, soprattutto attraverso una corruzione dilagante ancora in atto, si è rivelata vincente. La palude melmosa dell’immobilismo degli ultimi anni è stata rapidamente prosciugata attraverso iniziative governative, spesso non del tutto felici, nei contenuti e nelle forme, che hanno messo mano ed iniziato a modificare equilibri troppo consolidati con conseguenti rendite di posizione. E’ il caso della riforma del regime pensionistico, con la ripresa di un discorso iniziato quasi 20 anni addietro con il Governo Dini, oggi portato a dignità europea anche se sussistono dubbi e preoccupazioni per lo scoordinamento tra l’età lavorativa, quella anagrafica e precedenti sistemi di versamenti dei contributi. E’ il caso, ancora, delle liberalizzazioni per le quali il decreto definitivamente trasformato in legge, pur con notevoli amputazioni e contraddizioni, ha avvicinato il nostro Paese agli altri sistemi europei.

Nel caso del mercato del lavoro e della sua indifferibile riforma, tornando alla metafora delle “bandiere” di Clint Eastwood, il tam-tam scatenato sull’art. 18 dello Statuto del 1970 – con riferimento al modello tedesco in tema di condanna risarcitoria o di reintegrazione - ha confuso e continua a confondere le idee di tutti gli operatori economici, sociali, sindacali e, forse più di tutti, di quelli del mondo del diritto del lavoro. Ovvietà ed imprecisioni, come nel caso dei licenziamenti discriminatori, secondo la migliore dottrina, da sempre nulli, non solo per espresso dettato normativo, si sono intrecciate con avventate, ora ingenuamente, ora callidamente, distinzioni tra soggettività ed oggettività delle cause giustificatrici dei licenziamenti. Sembra di assistere al revival dell’ossessiva battaglia condotta dal precedente Ministro del Welfare, tutta impegnata nella bandiera da ammainare: la reintegrazione del lavoratore, come prima mossa per lo smantellamento dello Statuto dei Lavoratori.

Sembra quasi che si debba (o si voglia?) dimenticare il grande problema che da sempre blocca il nostro Paese e che consiste nel basso tasso di impiego di potenziali lavoratori (giovani e donne in particolare) rispetto alla media europea ed ai Paesi più avanzati all’interno dell’Europa oggi ormai a 27. Così, non si approfondiscono le pur interessanti nuove ipotesi, tutte da sviluppare, della c.d. “flessibilità in entrata” per rilanciare una prospettiva di incremento dell’occupazione e conseguentemente del pil ad oggi previsto nel breve periodo bassissimo rispetto a quello degli altri Paesi.

Si perde di vista anche l’importanza di una riforma in termini di economicità, efficienza e produttività economica generale, degli ammortizzatori sociali CIGO, CIGS e mobilità, magari lanciando originali, quanto improbabili, nuovi istituti come  l’Aspi (una specie di Araba Fenice, senza copertura finanziaria programmata per rispondere al dramma della disoccupazione) e si discetta con abili dispute neo-sofistiche sui licenziamenti individuali…economici.

Per chiudere il discorso si potrebbe usare l’antica frase: siamo alla finestra per vedere…che tempo fa o farà, magari auspicando di non dover rifugiarci nell’antico brocardo politichese: “piove…governo ladro”.

Ma forse è meglio intervenire, al più presto, ognuno per sé e per le sue capacità, possibilità e responsabilità, per predisporre tutti gli strumenti, dall’ombrello, se dovesse piovere, atti a prevenire aggravamenti di una situazione sociale che, con questa impressionante congerie di proposte, smentite alle proposte, controproposte e smentite delle stesse, rischia di portarci ad un ulteriore decreto che dopo il “salva” e dopo il “cresci”, dall’antica “Forza Italia”, potrebbe portarci ad una “Povera Italia”, per occupazione, per crescita e partecipazione democratica nuocendo alla vita di un Paese che ha urgente bisogno di ricollocarsi tra quelli alla testa di una ripresa globale sempre più indifferibile.

Prof. Gaetano Veneto

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info@codexa.it (Gaetano Veneto) Controversie di Lavoro Fri, 13 Apr 2012 19:10:59 +0000
Legittimità del recesso datoriale per lesione del rapporto fiduciario http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/legittimita-del-recesso-datoriale-per-lesione-del-rapporto-fiduciario.html http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/legittimita-del-recesso-datoriale-per-lesione-del-rapporto-fiduciario.html LEGITTIMITA' DEL RECESSO DATORIALE PER LESIONE DEL RAPPORTO FIDUCIARIO

Tribunale di Foggia - Sez. lavoro

Sentenza dell'8 luglio 2011 n. 3821

(Giudice dott.ssa Angela Quitadamo)

(Omissis)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con lo spiegato ricorso al Tribunale di Foggia in funzione di giudice del lavoro la ricorrente di cui in epigrafe, premesso di essere stata dipendente della Fondazione (…) con mansioni di assistente sociale ed inquadramento nel livello 3° super del CCNL Uneba, sino alla ricezione della lettera raccomandata data 14 novembre 2007, pervenuta il 23 novembre 2007, con la quale le era stato comunicato il licenziamento per gravi e dolose inadempienze, produttive di danni all’ente, e per conseguente perdita di fiducia, anche in relazione all’art. 71, lettera f, del CCNL di settore, in relazione alle contestazioni di addebito formulate nelle note del 15 e 18 ottobre 2007, l’una inerente alla circostanza dell’avere essa ricorrente riferito a persona estranea alla struttura false notizie in merito alla mancanza di posti disponibili, e di avere indicato altre strutture di ricovero in concorrenza, diffondendo anche materiale pubblicitario, nonché di aver abusato del telefono per motivi personali; l’altra riguardante la violazione del dovere di comunicare la variazione di reparto ad una degente; di aver impugnato il suddetto licenziamento, sia perché adottato in violazione della procedura disciplinare e della tempistica contrattuale per l’irrogazione delle sanzioni – essendo stato comminato oltre il termine di trenta giorni dalla data di presentazione delle giustificazioni, fissato dall’art. 71 del CCNL, ed essendo stato ancorato ad una pluralità di episodi dello stesso genere, mai contestai prima – sia perché privo di giusta causa e di contenuto palesemente diffamatorio; tutto ciò premesso, chiedeva all’adito Tribunale dichiararsi l’inefficacia dell’impugnato licenziamento, rispetto al periodo di malattia da cui era stata affetta essa ricorrente dal 19.11.2007 al 18.12.2007, nonché l’illegittimità dello stesso per assenza di giusta causa o quantomeno per sproporzione della sanzione rispetto all’entità dell’infrazione; per effetto ordinarsi alla Società resistente la reintegra di essa ricorrente nel posto di lavoro con condanna al pagamento in proprio favore, a titolo di risarcimento del danno, dell’indennità commisurata alla retribuzione globale dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, nonché di altra somma, da quantificarsi in via equitativa, a titolo di ristoro del danno morale; il tutto con vittoria di spese della lite. La Fondazione (…) resisteva alla domanda e ne chiedeva il rigetto; in via riconvenzionale chiedeva condannarsi la ricorrente al pagamento in proprio favore della somma di euro (…)  a titolo di risarcimento del danno patito per effetto della sua illecita condotta.

Esaurita la trattazione, la causa veniva decisa come da separato dispositivo letto in udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda è infondata.

Nessuna delle garanzie formali è stata in concreto violata in seno al procedimento disciplinare instaurato a carico della ricorrente e conclusosi con la comminatoria del licenziamento impugnato.

In primo luogo occorre evidenziare che il canone ermeneutico della buona fede sancito dall’art. 1366 c.c. con riferimento a tutte le fonti contrattuali, ivi comprese quelle di eteroregolamentazione collettiva dei rapporti di lavoro, impone di calcolare il termine di trenta giorni – entro cui, a mente del quarto comma dell’art. 71 del CCNL Uneba, avrebbe dovuto essere comminato il licenziamento disciplinare rispetto alla data di presentazione delle giustificazioni da parte della lavoratrice odierna ricorrente – senza tener conto della dilatazione temporale occorsa al procedimento di notificazione della comunicazione di tale provvedimento per causa non imputabile alla Fondazione mittente. La documentazione acquisita, infatti, attesta il compimento al 15 novembre 2007 di tutte le formalità necessarie al perfezionarsi della notifica, nonché il recapito al 17 novembre 2007 dell’avviso relativo a detto compimento (il tutto entro i trenta giorni decorrenti dal 19 ottobre 2007, data delle ultime giustificazioni della lavoratrice), ladove in data 23 novembre 2007 si è verificato soltanto il rititro del plico in giacenza presso l’Ufficio Postale, evidentemente per impossibilità dell’ufficiale giudiziario di eseguirne la consegna nei luoghi ovvero alle persone indicati dagli artt. 138 e ss. c.p.c..

Al riguardo, non è superfluo richiamare l’ormai unanime orientamento della Suprema Corte in materia di doppia valenza degli effetti notificatori, nei riguardi del notificante e del destinatario, che per primo si perfezionano nel momento in viene compiuta l’attività sul medesimo incombente, ed ai quali può senz’altro essere ricollegato il rispetto di un termine posto a suo carico dalla legge,  e per il secondo nel distinto momento in cui si realizza il risultato della conoscenza dell’atto (cfr. per tutte Cass. Sez. III sent. N. 11929 del 22/05/2006). Nel caso di specie, l’applicazione del surriferito principio comporta in concreto che, ferma la piena conformità della comunicazione di recesso al dettato dell’art. 71 CCNL Uneba, il termine per impugnarla non potrebbe che decorrere, in favore del destinatario, dalla data del relativo ritiro, e non certo dalla precedente data in cui si considerano compiute le formalità della notifica.

Inoltre, la circostanza che il licenziamento fosse già stato validamente comminato alla data del 17.11.2007 rende infondata l’eccezione dello stesso rispetto al decorso della malattia della lavoratrice dal 19.11.2007 al 18.12.2007.

Sotto distinto profilo, sembra adeguatamente assolto l’onere di preventiva contestazione dell’addebito rispetto al licenziamento impugnato, posto che la lettera in cui questo è stato formalizzato ricollega espressamente la determinazione datoriale di risolvere il rapporto ai contenuti delle due comunicazioni del 15 ottobre e del 18 ottobre 2007, riportati succintamente in un periodo di siffatto tenore: ... con la prima: aver riferito ad interessati false notizie di mancanza di posti disponibili, con indicazione di altre strutture di ricovero e materiale pubblicitario, nonché abuso dell’uso del telefono e con la seconda: avere violato i doveri di comunicazione delle variazioni di reparto con riflessi economici ....

La sintetica ricostruzione, in particolare datata 15 ottobre 2007 (che interessa ai fini dell’eccezione in esame) in seno alla quale si addebita alla ricorrente lo specifico episodio del 19 settembre 2007, così come riferito da persona estranea alla struttura; il riferimento è tutto all’intrinseca gravità della condotta tenuta dalla lavoratrice in tale occasione, non già al numero dei soggetti interessati ad avere notizie della struttura, così che la generica indicazione di essi al plurale non ha valore determinante, né sembra avere incidenza alcuna rispetto al senso complessivo della contestazione. Segue un resoconto degli approfondimenti e delle verifiche istruttorie da cui la Fondazione, come evincentesi dalla lettura del testo, ha tratto conferma circa il carattere serio delle inadempienze originariamente contestate alla lavoratrice, così che i comportamenti di quest’ultima, già stigmatizzati con sufficiente precisione nelle lettere di contestazione, acquistano ulteriore valenza negativa alla luce degli esiti delle indagini, che, pertanto, non sono valsi a smentirne l’originaria valutazione negativa della datrice di lavoro.  In proposito, la Giurisprudenza di legittimità ha evidenziato la necessità, perché il recesso scaturito da una pluralità di contestazioni, sia nel complesso viziato a causa della nullità di alcune di queste, che gli addebiti ritualmente contestati non siano per sé sufficienti a sorreggere il licenziamento stesso (cfr. Cass. n. 19343/2007).

In forza poi, di altro principio, affermato con precipuo riferimento alla questione squisitamente sostanziale della ricorrenza della giusta causa, quando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, pur dovendosi escludere che il giudice di merito possa esaminarli atomisticamente, attesa la necessaria considerazione della loro concatenazione ai fini della valutazione della gravità dei fatti, non occorre che l’esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti, ben potendo il giudice – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento del datore di lavoro – individuare anche solo alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenti il carattere di gravità richiesto dall’art. 2119 c.c. ... (Cass. Sez. lav. n. 2579 del 2.2.2009).

La giusta causa di licenziamento trova la sua fonte diretta nella normativa di carattere cogente contenuta negli artt. 2119 c.c. e L. 15 luglio 1966 n. 604, attraverso il cui esame si può giungere all’affermazione che la stessa - quale condizione di legittimità del recesso del datore di lavoro nell’ipotesi di una specifica mancanza del prestatore, dunque nel caso in cui si atteggi come la più grave espressione di esercizio del potere disciplinare – ricorre ogniqualvolta, sulla basa di un accertamento del fatto non considerato nella sua astratta configurazione, bensì nei suoi aspetti concreti, emerga che la condotta posta in essere dal dipendente appaia idonea, non soltanto per il suo contenuto oggettivo ma anche per la sua portata soggettiva, a ledere la fiducia del datore di lavoro, in modo tanto grave da farla venir meno, e da giustificare, dunque, il ricorso alla massima sanzione disciplinare, tenuto conto, altresì della qualità dei rapporti intercorsi tra le parti e del grado del vincolo di fiducia proprio di detti rapporti (cfr. Cass. n. 14257/00; n. 8568/00; n. 7394/00; n. 41138/00; n. 12197/99; n. 3386/99; n. 11500/95).

Siffatta verifica mira ad accertare l’esistenza del requisito della proporzionalità tra l’illecito posto in essere dal lavoratore e la sanzione espulsiva al medesimo comminata, e ciò in onore al generale principio di ragionevolezza sotteso alla normativa in materia di sanzioni disciplinari (cfr. Stat. Lav. art 7). Essa si pone, dunque, come momento centrale dell’indagine demandata all’autorità giudiziaria, la quale in tal senso non è vincolata alle previsioni della Contrattazione Collettiva se non dopo averne verificato la conformità alla nozione di giusta causa elaborata dalla citata normativa inderogabile (cfr. Cass. n. 8098/92).

In particolare, il giudice, nel formulare il suddetto giudizio di proporzionalità tra l’entità del fatto addebitato  e la sanzione comminata, dovrà attribuire notevole rilievo all’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore (Cass. 3 luglio 1992 n. 3 luglio 1992 n. 8123), valutando la gravità della mancanza contestata con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui la stessa fu posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed alla intensità dell’elemento psicologico dell’agente, onde stabilire se la mancanza in questione sia stata oggettivamente idonea a ledere in modo grave la fiducia riposta dal datore di lavoro nel dipendente, in  modo da giustificare la sanzione espulsiva (ex multis Cass. 23.12.97 n. 12986).

Ciò chiarito, chi scrive ritiene, per le ragioni di seguito esposte, che il solo addebito relativo all’episodio del 19 settembre 2007, primo nell’elenco delle contestazioni  di cui alla nota del 15 ottobre 2007, sia sufficiente a minare il vincolo fiduciario tra le parti in causa.

Trattasi, invero, di una contestazione incentrata tutta sulla falsità della notizia, riferita dalla ricorrente a persona estranea alla Fondazione, ma che si era mostrata interessata a divenirne ospite, circa la mancanza di posti liberi all’interno della struttura, dirottando l’interessato verso altre strutture concorrenziali delle quali la ricorrente avrebbe vantato la migliore qualità del servizio.

Ebbene, non può revocarsi seriamente in dubbio la piena idoneità a ledere il vincolo fiduciario del contegno attribuito alla prestatrice, censurato per il carattere, non già erroneo, bensì propriamente mendace, delle informazioni, rilasciate ad un potenziale cliente della Fondazione datrice di lavoro, per di più con abuso della posizione rivestita all’interno dell’organizzazione aziendale e nell’occasione stessa del servizio, reso ancor più grave dall’ulteriore contegno valutabile, alla stregua di criteri oggettivi, come invito all’interessato a rivolgersi ad altre specifiche strutture concorrenziali, ben individuate anche grazie all’offerta di materiale illustrativo corredato di indirizzo e di recapito telefonico. Quanto alla prova dell’effettivo atteggiarsi dell’episodio nei termini di cui alla contestazione dell’addebito, in primo luogo la ricorrente in sede di interrogatorio formale ha ammesso: a) che era stata addetta, in costanza di rapporto, a curare, le pratiche per l’accettazione delle domande di ingresso degli anziani nella struttura facente capo alla Fondazione, nonché ad effettuare i colloqui con gli interessati: b) che presso la Fondazione vi erano sempre posti disponibili e che, in ogni caso, c’era la possibilità di attendere vacanze di posto in relazione ai frequenti decessi degli ospiti; c) che aveva avuto nella sua scrivania il depliant mostratolo in corso di interrogatorio e che poteva averlo consegnato a qualche anziano – riconoscendo come propria la grafia sul documento – in onore alla prassi della Fondazione di dirottare gli anziani indigenti o non autosufficienti verso altre strutture più economiche ed a carattere familiare, con le quali intercorreva un accordo in tal senso.

Le dichiarazioni della ricorrente, il cui tenore, evidentemente, non ne consente la qualificazione in termini di confessioni, costituiscono, tuttavia, nel loro complesso, un prezioso riscontro alla rappresentazione dei fatti offerta dalla Fondazione resistente, ed un ausilio nella valutazione degli esiti della prova testimoniale.

Nell’ambito di questa, possiede rilievo la deposizione di (…), sentito quale anziano protagonista dell’episodio del 19 settembre 2007. Il menzionato teste ha ricostruito nella sua materialità il fatto contestato, dichiarando che la signora, con cui aveva avuto il colloquio, gli era stata indicata dall’usciere con il cognome (…); ciò rende irrilevante la circostanza che all’udienza del 19 dicembre 2009, ossia a distanza di oltre due anni, il teste non abbia saputo riconoscere la ricorrente tra i presenti, considerata l’oggettiva difficoltà per chiunque di conservare intatto il ricordo della fisionomia di un soggetto incontrato in un’unica occasione, così risalente nel tempo. Oltretutto, non risulta dagli atti di causa che, nell’ambito della Fondazione datrice di lavoro, vi fossero dipendenti con lo stesso cognome della ricorrente; ma soprattutto, il riconoscimento da parte di costei della propria grafia sul depliant che lo stesso (…) avrebbe poi consegnato al Presidente della Fondazione, in occasione dell’incontro sollecitato per rappresentare l’accaduto, non consente di dubitare seriamente del fatto che la ricorrente avesse consegnato detto materiale pubblicitario al teste e che gli avesse fornito oggetto della censura datoriale.

Quanto all’elemento soggettivo dell’addebito disciplinare, esso risiede nel carattere mendace della notizia, che il summenzionato teste ha ribadito essergli stata fornita dalla ricorrente, sull’indisponibilità di posti liberi presso la Fondazione. Le risultanze processuali hanno evidenziato, viceversa, che in seno alla Fondazione vigeva un’organizzazione in forza della quale le domande di accoglienza venivano protocollate e si procedeva alla loro accettazione in base ad un preciso ordine cronologico, così che soltanto a fronte di situazioni particolari, di non autosufficienza dell’anziano, ovvero di precarietà delle di lui condizioni economiche, inadeguate a garantire il pagamento della retta, si poteva ricorrere al dirottamento presso altre strutture, in nome di un certo spirito di collaborazione e nell’interesse dell’anziano stesso (cfr. dich. testi ..., ...). L’esistenza della prassi surriferita non vale, dunque, a ridurre la valenza negativa dello specifico contegno tenuto dalla ricorrente, alla quale il (…) – le cui condizioni fisiche e la cui lucidità mentale, emerse in sede di escussione, e dalla quale ha escluso di aver mai ricevuto indicazioni sulla possibilità di essere inserito in una lista di attesa. Il contenuto ingannevole delle informazioni fornite al teste  dalla ricorrente, emerso alla luce dei surriferiti elementi, è a sua volta indice rivelatore univoco della consapevolezza e della volontà della lavoratrice di dirottare un potenziale ospite della Fondazione verso altre strutture a carattere concorrenziale, oltre ogni limite entro cui tale contegno, in nome della prassi cui si è fatto cenno innanzi, potesse essere consentito, o quantomeno tollerato, dalla Fondazione datrice di lavoro. In altri termini, il carattere strumentale, tra l’oggettiva falsità delle informazioni rilasciate e la finalità perseguita dalla lavoratrice in contrasto con una precisa regola di disciplina, si sarebbe potuto escludere solo attraverso la prova, a carico della ricorrente, di essere incorsa in un’erronea rappresentazione della realtà organizzativa della struttura, determinata da specifici elementi, di consistenza e pregnanza tali da contrastare il giudizio di comune esperienza secondo cui ricorre alla menzogna chi ha di mira un risultato altrimenti non conseguibile.Va detto, infine, che il contegno tenuto dalla ricorrente, oltre a possedere un’indubbia idoneità lesiva dell’immagine e del buon nome della Fondazione, si caratterizza non tanto per l’entità del pregiudizio patrimoniale in concreto arrecato alla stessa attraverso la perdita, effettiva o presunta, di un’utenza e dell’occasione di incremento patrimoniale dalla stessa rappresentata, quanto piuttosto per il suo valore sintomatico, incidente in modo diretto ed immediato sul vincolo fiduciario, poiché, come detto innanzi, posto in essere dalla lavoratrice con abuso della mansione assegnata e con modalità che denotano, non già mera negligenza o superficialità, bensì vera e propria premeditazione.

Ciò, a sua volta, conduce a rimarcare i profili di disvalore ambientale, che appaiono propri della condotta tenuta dalla ricorrente, tanto più ove si considerino i contenuti professionali ed il grado di responsabilità inerenti alla mansione assolta dalla stessa.

Sul punto, si richiama quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui assai rilevante, nella valutazione degli elementi idonei ad incrinare il rapporto fiduciario fra lavoratore e datore di lavoro, dunque a legittimare il recesso di quest’ultimo, è l’elemento costituito dal disvalore ambientale che può connotare la condotta del dipendente, anche per la sua specifica posizione professionale e di responsabilità nel servizio svolto, in quanto modello diseducativo o comunque disincentivante nei confronti degli altri dipendenti della compagine aziendale ...(cfr. Cass. civ. sez. lav. 18 gennaio 2008, n. 1077). In definitiva, non è il dato oggettivo della cattiva prestazione professionale (nella specie, l’aver fornito notizie errate ad un potenziale utente della struttura), bensì il disvalore insito nella finalità perseguita dalla ricorrente, quale sembra emergere dall’esame dei surriferiti elementi, a sorreggere adeguatamente una pronuncia di legittimità del recesso datoriale per lesione del rapporto fiduciario.

Alla stregua di tanto, il ricorso deve essere rigettato.Va rigettata la domanda riconvenzionale, poiché, ad onta della raggiunta prova sull’illiceità del contegno della lavoratrice, la datrice di lavoro non ha offerto sufficienti elementi per la determinazione in concreto dell’entità del danno patito quale conseguenza di siffatto contegno. La natura della questione trattata e la diversa posizione delle parti suggeriscono di compensare le spese di lite.

P.Q.M.

Il Tribunale di Foggia in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando sulla domanda depositata in data 20.2.2009 da (…) nei confronti della Fondazione (…), uditi i procuratori delle parti, così provvede:

Rigetta il ricorso; rigetta la domanda riconvenzionale; spese compensate.

(Omissis)

NOTA

La pronuncia in esame attiene ad una controversia instaurata su ricorso di una lavoratrice, la quale a seguito della comminazione della sanzione del licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c. da parte del proprio datore di lavoro, ovvero la Fondazione  (…), struttura di ricovero per anziani, presso la quale svolgeva le mansioni di assistente sociale con inquadramento nel livello 3° super del CCNL Uneba, impugnava lo stesso provvedimento dinanzi al giudice adito. Ex adverso, parte datoriale eccepiva nella propria comparsa di costituzione e risposta, la ragionevolezza e proporzionalità del provvedimento espulsivo adottato nei confronti della ricorrente, in dipendenza delle reiterate inadempienze ai propri doveri di diligenza e fedeltà poste in essere dalla lavoratrice, la quale aveva riferito a persone esterne alla struttura notizie false, nonché aveva diffuso materiale pubblicitario di altre strutture di ricovero. Inoltre, preliminarmente la ricorrente sollevava questione attinente alla regolarità della comminazione del licenziamento, in quanto in violazione dei termini di cui all’art. 71 del CCNL Uneba, che pone in giorni 30 dalla data di presentazione delle giustificazioni del lavoratore, il termine entro cui irrogare le sanzioni disciplinari. In riferimento a tale questione preliminare, l’On. Giudicante ha sottolineato come, in ossequio al canone ermeneutico d’interpretazione secondo buona fede ex art. 1366 c.c., nell’ambito del calcolo dei termini per la comminazione delle sanzioni disciplinari con riferimento a tutte le fonti contrattuali, compresa quella eteronoma di cui all’art 71 del CCNL in analisi, è necessario far riferimento alla data di presentazione delle giustificazioni del lavoratore, senza tener conto di eventuali dilatazioni temporali, dovute al procedimento di notificazione del provvedimento per causa non imputabile al mittente. A fronte di ciò, si rileva che, essendo stato il licenziamento preceduto da idonea e specifica contestazione disciplinare, in ossequio al precetto di cui all’art 7 Stat. Lav.  da parte datoriale, esso dovrà considerarsi legittimamente intimato. Oggetto primario della sentenza è la determinazione se nella condotta della ricorrente vi fossero gli estremi ravvisabili del canone della giusta causa di cui all’art. 2119 c.c., tali da giustificare l’irrogazione del provvedimento espulsivo da parte datoriale. Sul punto, il Giudicante rileva che punto focale per l’individuazione della sussistenza dell’effettiva proporzionalità tra violazione disciplinare del lavoratore e provvedimento sanzionatorio comminato nei confronti di quest’ultimo, risiede nella prodromica, quanto indispensabile, indagine afferente l’elemento psicologico che abbia sostenuto la condotta contestata. Difatti, ai sensi dell’art. 2119 c.c. solo un “grave inadempimento” posto in essere dal lavoratore, potrà giustificare la comminazione del licenziamento per giusta causa, e quest’ultimo dev’essere di tale entità da non “consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. Di conseguenza, quale canone interpretativo di tale grave inadempimento non potrà che essere la valutazione dell’elemento soggettivo che sorregga la condotta del lavoratore e la sua eterodeterminazione a livello finalistico a ledere il rapporto fiduciario col proprio datore di lavoro.

Sul punto, la stessa Suprema Corte ha più volte rilevato che l’intensità della componente volitiva nell’ambito del comportamento del lavoratore rileva quale  parametro di raffronto, al fine della concretizzazione di una “mancanza idonea a ledere in modo grave la fiducia riposta dal datore di lavoro nel dipendente, in modo da giustificare la sanzione espulsiva” (cfr. Cass. 23.12.97 n. 12986).

Fatte tali dovute precisazioni, il giudice adito si sofferma sul contenuto delle informazioni rese dalla ricorrente nei confronti di soggetti esterni alla struttura datrice di lavoro, in riferimento all’attestata falsità delle notizie riferite. A tal proposito, si dovrà far riferimento non già ad una mera erroneità delle informazioni rese, ma bensì alla propria peculiare mendacità, tale da indurre volontariamente in errore coloro i quali entrino in contatto con la lavoratrice stessa. Il contenuto ingannevole delle informazioni costituisce indice sintomatico non solo dell’inequivoca volontarietà della condotta posta in essere, ma soprattutto della propria connessione teleologica e strumentale alla finalità lesiva dell’immagine pubblica della struttura datrice di lavoro. Quale conseguenza di ciò, prosegue il Giudicante, se ne può ampiamente dedurre l’attitudine posseduta in re ipsa dalla condotta posta in essere dalla ricorrente ad attuare una lesione nei confronti della struttura, che sebbene non sia idonea ad arrecare un eccessivo pregiudizio patrimoniale, in virtù della limitata rilevanza esterna del fatto, tuttavia è  senza dubbio manifesta dell’intenzionale e deliberata volontà della lavoratrice di ledere il vincolo fiduciario con il proprio datore di lavoro. Pertanto, la condotta del lavoratore andrà valutata nel suo complesso nella sua portata oggettiva e soggettiva, al fine di determinare l’idoneità della stessa ad incrinare il rapporto fiduciario tra lavoratore e datore. Sul punto, si richiama l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che vuole che: “... nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento” (Cass. sez. lav. 24 luglio 2006 n. 16864). Fulcro della questione esaminata è la qualificazione del disvalore ambientale dei profili della condotta tenuta dal lavoratore, i quali dovranno possedere i caratteri oggettivi e soggettivi della cattiva prestazione professionale, tali da connotare teleologicamente e volitivamente la stessa e da rendersi anche solo potenzialmente lesiva. Pertanto, unico caso nel quale si sarebbe potuta sostenere la mancanza di tale volontà lesiva posta in essere dalla lavoratrice, e che costituiva proprio onore provare, sarebbe stato il caso di sussistenza di una erronea rappresentazione della realtà organizzativa della struttura, tale da indurla a rendere informazioni non rispondenti al vero ai soggetti esterni all’impresa. Nel caso de quo invece, il giudice non ha ritenuto di accogliere tale tesi ed alla luce delle emergenze probatorie ha connotato la condotta della lavoratrice quale sintomatica di una specifica volontà di ledere il vincolo fiduciario con il proprio datore di lavoro, svolgendo attività di promozione di altre strutture concorrenti, in occasione ed in abuso delle mansioni svolte. Di conseguenza, appare pienamente condiviso dal Giudicante l’orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo il quale “l’elemento costituito da disvalore ambientale che può connotare la condotta del dipendente, anche per la sua specifica posizione professionale e di responsabilità nel servizio svolto, in quanto modello diseducativo o comunque disincentivante nei confronti degli altri dipendenti della compagine aziendale ... (cfr. Cass. civ, sez. lav. 18 gennaio 2008 n. 1077). In conclusione alla disamina svolta la pronuncia suddetta ritiene di dovere concludere che la condotta della ricorrente nei confronti della struttura datrice di lavoro presenti tutti i profili di disvalore ambientale e di premeditazione, atti ad essere, potenzialmente o concretamente, lesivi dell’immagine datoriale esterna. In tale ottica, non è necessario valutare la condotta della lavoratrice alla luce del parametro della mera cattiva prestazione professionale in senso oggettivo, ma bensì nel proprio disvalore intrinseco e nella finalità lesiva perseguita. Di tal guisa, si conclude con l’attestazione della piena legittimità del provvedimento espulsivo comminato dalla struttura datoriale nei confronti della ricorrente, in virtù della lesione irreparabile del rapporto fiduciario che quest’ultima ha posto in essere.  

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info@codexa.it (di Tiziana V. de Virgilio) Rassegna giurisprudenziale Tue, 15 Nov 2011 16:24:18 +0000
Compenso per lavoro straordinario http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurissrudenziale/compenso-per-lavoro-straordinario.html http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurissrudenziale/compenso-per-lavoro-straordinario.html COMPENSO PER LAVORO STRAORDINARIO

Onere probatorio del prestatore per le rivendicazioni patrimoniali 

di Gaetano Brindicci

 

(in rivista telematica www.dirittodeilavori.it, anno IV n. 2, maggio 2010)

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info@codexa.it (di Gaetano Brindicci) Rassegna giurisprudenziale Tue, 01 Jun 2010 07:14:25 +0000
Opposizione ad ingiunzione di pagamento http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/opposizione-ad-ingiunzione-di-pagamento.html http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/opposizione-ad-ingiunzione-di-pagamento.html

 PROCESSO DEL LAVORO E CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

Opposizione ad ingiunzione di pagamento. Accertamento incidentale della subordinazione

(da www.dirittodeilavori.it Anno III, n. 1)

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info@codexa.it (di Gaetano Brindicci) Controversie di Lavoro Mon, 04 Jan 2010 09:58:03 +0000
L'accertamento pregiudiziale della validità, efficacia ed interpretazione dei contratti collettivi http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/laccertamento-pregiudiziale-della-validita-efficacia-ed-interpretazione-dei-contratti-collettivi.html http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/laccertamento-pregiudiziale-della-validita-efficacia-ed-interpretazione-dei-contratti-collettivi.html L'accertamento pregiudiziale della validità, efficacia ed interpretazione dei contratti collettivi

di Antonio BELSITO

(da www.dirittodeilavori.it, Anno III n. 1)

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info@codexa.it (di Antonio Belsito) Controversie di Lavoro Thu, 03 Dec 2009 20:51:33 +0000
Incoercibilità dell'ordine di reintegrazione http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/incoercibilita-dellordine-di-reintegrazione.html http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/incoercibilita-dellordine-di-reintegrazione.html E' possibile eseguire coattivamente l'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro costrigendo ad un facere il datore di lavoro?

E' valido nel nostro ordinamento il principio nemo ad factum cogi potest?

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info@codexa.it (di Antonio Belsito) Controversie di Lavoro Wed, 28 Oct 2009 12:31:39 +0000
La riforma del procedimento cautelare http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/la-riforma-del-procedimento-cautelare.html http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/la-riforma-del-procedimento-cautelare.html La normativa riguardante i procedimenti cautelari è stata integrata e modificata da alcune disposizioni previste nel D.L. 41/03/2005 n. 35, convertito con modificazioni nella L. 14/05/2005 n. 80.

Nelle controversie di lavoro spesso si fa ricorso a procedimenti cautelari ed in particolare a quello atipico di cui all'art. 700 c.p.c..

Si riporta qui di seguito un breve commento sulla riforma del procedimento cautelare tratto dalla rivista scientifica Diritto dei Lavori. 

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info@codexa.it (di Antonio Belsito) Controversie di Lavoro Mon, 26 Oct 2009 20:08:15 +0000
L’esercizio dei poteri istruttori del Giudice del Lavoro http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/l-esercizio-dei-poteri-istruttori-del-giudice-del-lavoro.html http://www.csddl.it/csddl/controversie-di-lavoro/l-esercizio-dei-poteri-istruttori-del-giudice-del-lavoro.html L’esercizio dei poteri istruttori del Giudice del Lavoro

Sommario: 1. Poteri istruttori ex art. 421 c.p.c. – 2. Irregolarità degli atti - 3. Divieto dell’intervento diretto del Giudice – 4. Piste probatorie – 5. I poteri istruttori del Giudice nel processo penale ed in quello civile – 6. Utilizzo improprio di tali poteri – 7. Poteri istruttori in appello – 8. Considerazioni.

l     (1) Il processo del lavoro in vigore dal 1973[1] prevede all’art. 421 c.p.c. la possibilità che il Giudice intervenga in qualsiasi momento nell’attività istruttoria espletata su richiesta delle parti al fine di sanare eventuali irregolarità degli atti e, se necessario, di integrarla.

In particolare, il Giudice può disporre di ufficio l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile.

Una prima lettura dell’articolo 421 c.p.c. non coordinata con quanto previsto dall’intera normativa del processo del lavoro potrebbe lasciare intendere che per l’esercizio di tali poteri istruttori da parte del Giudice sia concessa così tanta discrezionalità da non sussistere alcun limite.

Ma ciò sarebbe in evidente contrasto con la ratio dell’intero processo del lavoro che seppur improntato ai principi chiovendiani dell’oralità, concentrazione ed immediatezza, resta sempre un giudizio civile promosso da una parte che, anche ai fini dell’attività istruttoria da espletarsi, è tenuta a pena di decadenza a formulare le richieste nel proprio ricorso così come il convenuto deve farlo con la sua comparsa di costituzione da depositare dieci giorni prima dell’udienza[2].

Ciò lascia intendere che l’attività istruttoria del Magistrato dovrebbe essere di mero completamento a quella richiesta dalle parti non essendogli consentito sostituirsi per le incombenze poste, a pena di decadenza, a carico delle stesse.

La giurisprudenza, soprattutto di legittimità, è intervenuta a più riprese per delimitare l’esercizio dei poteri di cui all’art. 421 c.p.c..

Tuttavia, nella pratica, spesso il Magistrato del Lavoro di fatto sopperisce alle negligenze delle parti che “dimenticano” le proprie richieste ponendo così in discussione anche la sua stessa garanzia di imparzialità.

Il Giudice del Lavoro, secondo quanto previsto dall’art. 421 c.p.c. può disporre d’ufficio, in qualsiasi fase, l’espletamento di ogni mezzo di prova nei limiti stabiliti dal codice di procedura civile, “… anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile …” compresa la prova testimoniale (artt. 2721-2726-2729-2735) fatta eccezione del giuramento decisorio[3].

Il Giudice può sempre ordinare la comparizione delle parti per interrogarle liberamente, disporre l’accesso sul luogo di lavoro ed anche ascoltare i testimoni sul medesimo posto, qualora ne ravvisi l’utilità.

Inoltre, può autorizzare la sostituzione della verbalizzazione da parte del cancelliere con la registrazione sul nastro (art. 422 c.p.c.), e nominare in qualsiasi momento un consulente tecnico, se la natura della controversia lo richieda (ad es.: al fine di verificare o elaborare conteggi analitici relativi alla richiesta di emolumenti o differenze retributive).

Egli può inoltre concedere un termine al C.T.U. (consulente tecnico d’ufficio) per elaborare e depositare la relazione scritta sulle attività tecniche svolte per il cui espletamento l’art. 424 c.p.c. prevede un termine improrogabile non superiore a 20 giorni, termine che nella pratica viene di fatto ampiamente disatteso essendo le parti spesso costrette a pazientare anche per molti mesi.

Può disporre d’ufficio la richiesta di informazioni ed osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti che ai sensi degli artt. 421 co. 1 e 425 c.p.c. “non hanno un’autonoma valenza probatoria ma forniscono chiarimenti ed elementi di valutazione in ordine a dati fattuali già acquisiti al processo”[4].

Tali informazioni possono essere rese anche nel luogo di lavoro, ove sia stato disposto l’accesso ex art. 421, co. 3.

Il Giudice può, altresì, richiedere alle OO.SS.  il testo dei contratti collettivi di lavoro di categoria necessari alla verifica delle disposizioni normative ed economiche, se ed in quanto applicabili alla controversia in corso.

Per quanto concerne le prove testimoniali sono superabili i limiti stabiliti dal codice civile agli artt. 2721 (limiti di valore), 2726 (prova del pagamento e della remissione), 2729 (presunzioni semplici), 2735 (confessione stragiudiziale), ad eccezione del giuramento decisorio, mentre non lo sono i limiti fissati dall’art. 2725 cod. civ., 2731 (capacità richiesta per la confessione), 2737 (capacità delle parti), 2739 (giuramento)[5]. Ulteriore limite che il Giudice può superare nell’acquisizione delle prove testimoniali è quello previsto dall’art. 1417 cod. civ. in tema di simulazione[6].

 

l      (2) Sempre il primo comma dell’art. 421 c.p.c. riconosce altresì al Giudice l’onere di indicare in ogni momento alle parti le irregolarità degli atti e dei documenti che potrebbero essere sanate previa concessione di un termine per provvedervi (salvo gli eventuali diritti quesiti), intendendo per tali irregolarità le nullità sanabili, come può essere a titolo puramente esemplificativo il mancato deposito di una procura generale alle liti per atto notarile, seppur richiamata nei suoi estremi nell’atto di parte.

Tuttavia, qualora l’altra parte abbia preventivamente eccepito tale irregolarità nel tempo utile per consentire all’interessato di porvi rimedio non potrà trovare applicazione la possibilità di cui al primo comma dell’art. 421 c.p.c..

Nel rito del lavoro se la parte abbia, con l'atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniale, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma non indicando le generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determinerà decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreterà una mera irregolarità, che abilita il giudice all'esercizio del potere-dovere di cui all'art. 421, comma primo, c.p.c.. Per cui, in sede di pronuncia dei provvedimenti istruttori di cui all'art. 420 stesso codice, il giudice, ove ritenga l'esperimento del detto mezzo pertinente e rilevante ai fini del decidere, deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità che allo stato non consente l'ammissione della prova, assegnandole un termine perentorio per porvi rimedio secondo quanto previsto dalla norma da ultimo citata, pena la decadenza in caso di mancata ottemperanza.

L’art. 244 c.p.c. attribuisce al giudice un potere discrezionale circa l'assegnazione di un termine per formulare o integrare le indicazioni relative alle persone da interrogare (o ai fatti sui quali debbano essere interrogate); una volta che il giudice abbia esercitato tale potere, definisce il termine come perentorio, precludendo così la possibilità di concedere ulteriori dilazioni.

L'inosservanza del nuovo termine concesso, preclusivo ad ulteriori dilazioni comporterà la decadenza dalla prova, rilevabile anche d'ufficio e non sanabile nemmeno sull'accordo delle parti[7].

 

 

l      (3) Spesso l’uso di tali poteri vanifica le “regole processuali” e sostanzialmente non tiene più conto di preclusioni o decadenze, lasciando ampi spazi discrezionali al Magistrato, che col suo intervento sopperisce sostanzialmente alle negligenze delle parti.

A tal proposito è intervenuta la giurisprudenza di legittimità, chiarendo che l’attribuzione al Giudice dei poteri istruttori incontra dei limiti, dovendosi rispettare l’onere di deduzione in giudizio esclusivamente a carico delle parti di fatti costitutivi, impeditivi o estintivi del diritto.

Va quindi rispettato il divieto dell’intervento diretto del Giudice, qualora la parte non abbia tempestivamente allegato i predetti fatti.

I poteri istruttori del Giudice, però, non devono estendersi al punto tale da costituire un vero e proprio rimedio alle irrituali richieste delle parti.

Non si pone invece alcuna questione di preclusione o decadenza processuale a carico della parte, quando la prova “nuova” viene disposta di ufficio al solo scopo di approfondimento ritenuto indispensabile di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo.

Il Giudice ha il potere di disporre l’assunzione dei mezzi di prova anche al di fuori di quelli offerti dalle parti.

Questa disposizione non esorbita dall’ambito probatorio e non pregiudica il principio della disponibilità dell’oggetto del processo, ma non investe neppure il tema delle cd. prove atipiche, né la regola principale del giudizio basato sull’onere della prova.

Tuttavia, il Giudice nell’esercizio dei suoi poteri è vincolato da un rigoroso limite preclusivo della possibilità di disporre prove d’ufficio in ordine a fatti non allegati dalle parti[8].

Secondo la dottrina l’esercizio del potere di ufficio è del tutto discrezionale e pertanto sottratto al sindacato di legittimità[9].

 

l      (4) L’orientamento giurisprudenziale più prudente – che si condivide – consente al Giudice di poter intervenire, disponendo d’ufficio i mezzi di prova rivenienti dall’esposizione dei fatti, ma non di sostituirsi alla parte che non abbia allegato fatti rilevanti e non abbia neanche implicitamente dedotto dei mezzi di prova. Non è consentito in questi casi al Giudice di incamminarsi sulle cosiddette “piste probatorie”.

Nel rito del lavoro, l'attribuzione al giudice di poteri istruttori d'ufficio, ai sensi dell'art. 421, comma 2, c.p.c., incontra un duplice limite, poichè, da una parte, deve rispettare il principio della domanda e dell'onere di deduzione in giudizio dei fatti costitutivi, impeditivi o estintivi del diritto controverso e, dall'altra, deve rispettare il divieto di utilizzazione del sapere privato da parte del giudice, sicchè - in sostanza - la norma dispensa la parte dall'onere della formale richiesta della prova e dagli oneri relativi alle modalità di formulazione dell'oggetto della prova, ma richiede pur sempre che, dall'esposizione dei fatti compiuta dalle parti o dall'assunzione degli altri mezzi di prova, siano dedotti, sia pure implicitamente, quei fatti e quei mezzi di prova idonei a sorreggere le ragioni della parte e a decidere la controversia, e cioè che sussistano significative piste probatorie  emergenti dagli atti di causa[10].  

Deve pertanto ritenersi escluso l'esercizio dei poteri ex art. 421 c.p.c. quando i fatti dedotti dal ricorrente siano sforniti di un minimo supporto probatorio e per la loro genericità non facciamo desumere quale sia stata l'attività concretamente svolta.

In conclusione qualora il materiale probatorio già acquisito sia tale da non offrire significative piste di indagine il Giudice non è tenuto ad attivare i suoi poteri ufficiosi[11].

 

l      (5) I poteri istruttori del Giudice nel processo civile sono previsti da numerose disposizioni del Codice di Procedura Civile. In particolare l’art. 183, 8° co. (così come modificato dalla L. 23/02/2006 n. 51 ed entrato in vigore il giorno 01/03/2006) contempla la possibilità che il Giudice disponga di ufficio mezzi di prova con l’ordinanza di cui al precedente comma.

Egli concederà un termine perentorio per il deposito di memoria.

Anche in questo caso, secondo gli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità, il provvedimento con il quale il Giudice ai sensi dell’art. 184 c.p.c. e dell’art. 111 della Costituzione (“giusto processo”) esplicita le ragioni per le quali reputa di far ricorso all’uso dei poteri istruttori, (ovvero ritenga di non farvi ricorso), può essere sottoposto al sindacato di legittimità per vizio di motivazione qualora non sia sorretto da congrua e logica spiegazione per non aver fatto espletare i mezzi istruttori relativi al punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione[12].

Nel processo penale l’art. 507 c.p.p. prevede l’ammissione di nuove prove da parte del Giudice il quale, però, a differenza di quanto accade nel giudizio civile e in quello del lavoro, soltanto terminata l’acquisizione delle prove, qualora risulti assolutamente necessaria può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova.

Il Giudice ha l’obbligo, a pena di nullità della sentenza, di acquisire anche d’ufficio ex art. 507 c.p.p. i mezzi di prova indispensabili per la decisione, non essendo rimessa alla sua discrezionalità la scelta tra disporre i necessari accertamenti ed il proscioglimento dell’imputato. Pertanto il Giudice deve motivare specificamente in ordine al mancato esercizio dei poteri di integrazione probatoria e l’assenza di una adeguata motivazione censurabile in sede di legittimità determina una violazione di legge dalla quale deriva la nullità della sentenza[13].

Nel giudizio civile pertanto ed in quello di lavoro l’esercizio dei poteri istruttori ha una funzione di mera integrazione dell’iniziativa probatoria delle parti ma non certo suppletiva, caratteristica precipua del processo penale dove l’art. 507 c.p.p. concede al Giudice un ampio potere-dovere  che deve essere esercitato dal Giudice, a pena di nullità della sentenza, quando risulti assolutamente necessario anche con riferimento ai testimoni del P.M. preventivamente ammessi, ma non citati per l’inerzia della parte[14].

Nel giudizio penale l’esigenza di accertare la verità impone al Giudice, quando lo ritenga assolutamente necessario, di disporre attività istruttoria suppletiva a quella non richiesta dalle parti.

Nel procedimento penale il giudice, ai sensi e per gli effetti dell’art. 507 c.p.p., può disporre l’espletamento di nuovi mezzi di prova anche nel caso in cui non vi sia stata precedente acquisizione quand’anche le parti avrebbero potuto chiederla, purchè l’iniziativa probatoria sia assolutamente necessaria ai fini dell’assunzione di una prova decisiva sempre nell’ambito delle prospettazioni delle parti, non potendo il giudice autonomamente coltivare ipotesi alternative giacchè in tal caso si violerebbe il principio fondamentale di terzietà della giurisdizione[15].

Quando il Giudice fa uso dei propri poteri istruttori (oppure non li utilizza nonostante la necessità) deve motivare la sua decisione e tale motivazione sarà sindacabile in sede di legittimità.

Si precisa che nel processo del lavoro la motivazione, ai fini della sindacabilità, deve essere richiesta espressamente dalla parte al momento della decisione del Magistrato e ciò perché in questo giudizio (a differenza di quello penale) non è sindacabile la decisione ex art. 421 c.p.c., perché esercizio di un potere discrezionale.

 

(6) Il Magistrato non può disporre “d’ufficio” l’intera attività istruttoria mai richiesta neanche indirettamente da una delle parti, ad esempio ordinando alla ditta convenuta la produzione di tanti documenti per poi scegliere nominativi di testimoni ricavati dalla narrativa del ricorso introduttivo e disporre una C.T.U. senza che mai il ricorrente abbia prodotto una dettagliata relazione tecnica di parte (elemento essenziale a fondamento di una domanda ex art. 414 nn. 3 e 4 c.p.c.)[16].

Il Giudice del Lavoro non può disporre C.T.U. se ad esempio il ricorrente nel chiedere le differenze retributive non produca conteggi analitici e relativi riferimenti tecnici ma soprattutto non può disporlo senza che vi siano elementi tali da far ritenere almeno indirettamente che il ricorrente intendesse farne richiesta.

L’adozione di simile metodo desta non poche perplessità, poiché l’uso eccessivo dei poteri di cui all’art. 421 c.p.c. in spregio alla stessa normativa e ai costanti insegnamenti della S.C. di Cassazione[17] crea non pochi dubbi sull’imparzialità del Giudicante ed inevitabilmente la decisione risulterà condizionata dalla impostazione unilaterale prospettata dal ricorrente negligente.

Come già accennato, il Giudice del Lavoro non è chiamato a sopperire alle negligenze delle parti che sono tenute a pena di decadenza (altrimenti a che serve stabilire un termine “a pena di decadenza”?) a formulare le proprie richieste istruttorie a sostegno delle loro tesi nei perentori termini di legge, ma può soltanto integrare il quadro probatorio delineato dalle parti colmando eventuali lacune delle risultanze di causa[18].

I poteri istruttori del giudice ex art. 421 c.p.c. - pur diretti alla ricerca della verità, in considerazione della particolare natura dei diritti controversi - non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, nè tradursi in poteri d'indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale[19].

La nuova prova disposta di ufficio deve essere soltanto l’approfondimento, ritenuto indispensabile, di elementi probatori già obiettivamente presenti nella realtà del processo[20].

Insomma si tratta di stabilire fino a che punto possa “spingersi” il Magistrato nell’esercitare i poteri ex art. 421 c.p.c. e se possa superare  preclusioni e decadenze nelle quali siano incorse le parti con il pericolo che la imparzialità del Giudice non sia più garantita.

Secondo un orientamento giurisprudenziale del 1996 “l’esercizio del potere istruttorio di ufficio rientra nella discrezionalità del Giudice il cui mancato esercizio non sarebbe sindacabile in sede di legittimità…”.

Ma, aderendo al recente orientamento della Giurisprudenza di legittimità, se la parte dovesse richiedere la motivazione sull’esercizio del potere discrezionale, il Giudice dovrà dar conto delle proprie scelte,[21] ed in questo caso la decisione sarebbe sindacabile in sede di legittimità (si veda avanti Cass. Sez. Lav. n. 4611/2006 già citata).

 

l      (7) Il Giudicante può far uso di tali poteri istruttori anche in grado di appello, secondo quanto stabilito dall’art. 437 c.p.c., ove reputi insufficienti le prove già acquisite esercitando il potere dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, semprecchè tali fatti siano stati puntualmente allegati nell’atto introduttivo non verificandosi così alcun superamento di eventuali preclusioni o decadenze processuali[22].

Nel processo del lavoro, l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio in grado d'appello presuppone la ricorrenza di alcune circostanze:

-  l'insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali;

-  l'opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti;

-  l'indispensabilità dell'iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa[23].

L’art. 437, comma 2, c.p.c. attribuisce al giudice di appello incisivi poteri istruttori in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della controversia, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti e pur in assenza di una specifica richiesta delle parti in causa. Ne consegue che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, anche il giudice di appello, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione[24].

Infine, nel giudizio di rinvio, con riferimento al rito del lavoro, i limiti all’ammissione delle prove concernono l’attività delle parti e non si estendono ai poteri del giudice, che potrà comunque far riferimento soltanto al materiale probatorio ritualmente acquisito nella fase processuale antecedente al giudizio di cassazione [25].

 

l       (8) Soltanto nel processo penale il Giudice esercita i suoi poteri istruttori anche in forma suppletiva, mentre nel giudizio di lavoro così come in quello civile il Giudice può limitarsi ad integrare l’attività istruttoria già espletata avendo cura, qualora gli venga richiesto, di motivare la sua decisione che in questo caso potrebbe essere oggetto anche di sindacato di legittimità.

L’utilizzo di quanto disposto dall’art. 421 c.p.c. deve però rigorosamente essere contenuto nei limiti stabiliti sia dalla ratio della stessa normativa del processo del lavoro sia dai costanti insegnamenti della giurisprudenza di legittimità che, peraltro, ha fatto propri autorevoli pareri dottrinali.

Inoltre, i poteri di cui all’art. 421 c.p.c. devono essere utilizzati in forma prudenziale poiché ci sarebbe il rischio fondato di ledere la effettiva imparzialità dello stesso Giudice.

Non sussiste il principio di dover a tutti i costi accertare la verità come nel processo penale : in questo caso la controversia può anche avere un esito negativo soltanto perché la parte non è stata adeguatamente diligente e ciò senza che possa sperare di essere “aiutata” dallo stesso Magistrato, il quale non deve neanche avviarsi in piste probatorie se dall’attività istruttoria non siano emersi elementi idonei a rendere verosimile quanto dedotto da una delle parti.

Sarà opportuno perciò che in un progetto di riforma vengano anche previste regole più specifiche (e soprattutto chiare!) che non consentano più al Giudice di agire in assoluta libertà e secondo il proprio potere discrezionale impedendogli di adattare, secondo personali criteri,  le norme per l’esercizio dei poteri istruttori.

 

Antonio BELSITO

Avvocato lavorista del Foro di Trani

Docente Scuola di Specializzazione per le

Professioni Legali – Università di Bari - MARZO 2007

 

 

 



* Tratto da Diritto delle Relazioni Industriali (rivista trimestrale già diretta da M. Biagi), 

n. 2, 2007, Giuffrè Editore, Milano.

[1] L. 11/08/1973, n. 533. Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza di assistenza obbligatorie.

[2] Impulso processuale: nel processo civile di lavoro l’onere dell’impulso è innanzitutto a carico delle parti e ciò sia in primo che in secondo grado. Soltanto residualmente è consentito al Giudice di merito di intervenire con i suoi poteri (nel giudizio di Cassazione invece l’impulso processuale è soltanto di ufficio).

[3] Cass. Sez. Lav. del 05/04/2005 n. 7011.

[4] Cass. Sez. Lav. del 15/02/2005 n. 3004.

[5] Cfr. Montesano, Vaccarella: Manuale di diritto processuale del Lavoro, Ed. Novene 1989.

[6] Cass. Sez. Lav. 28/10/1989 n. 4525.

[7] Cass. Sez. Lav. 21/08/2004 n. 16529.

[8] Cfr. A. Carrato, A. Di Filippo: “Il processo del lavoro”, IL SOLE 24 ORE, 2001, 144-145.

[9] Cfr. R. Foglia : “Il processo del lavoro privato e pubblico di primo grado”, 2000, 359.

[10] Cass. Sez. Lav. 06/07/2000 n. 9034 (Deduzione implicita della parte di mezzi di prova: cd. “piste probatorie”).

[11] App. Roma Sez. Lav. 15/07/2005.

[12] Cass. Sez. Lav. 02/03/2006 n. 4611.

[13] Cass. Sez. V Pen. 11/10/2005.

[14] Cass. Sez. V Pen. 20/04/2001.

[15] Cass. SS. UU. penali, 17/10/2006 n. 41281.

[16] Si veda quanto accaduto nel giudizio di primo grado istruito integralmente “di ufficio” senza richiesta delle parti Trib. Taranto : Giudice del Lavoro sent. n. 4231/06 del 18/05/2006.

[17] Cass. Sez. Lav. 17/06/2004 n. 11353.

[18] Cass. Sez. Lav. 10/01/2006 n. 154.

[19] Cass. Sez. Lav. 08/08/2002 n. 12002.

[20] Cass. Sez. Lav. 23/05/2003 n. 8220.

[21] Cfr. G. Ianniruberto “Il processo del lavoro rinnovato”, CEDAM 2001, 160, in riferimento a Cass. Sez. Lav. 22/08/1997 n. 7881.

[22] Cass. Sez. Lav. 10/01/2005 n. 278.

[23] Cass. Sez. Lav. 10/01/2006 n. 154.

[24] Cass. Sez. Lav. 20/04/2005 n. 8202.

[25] Cass. Sez. Lav. 13/02/2006 n. 3047: “Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto non configurabile l’ipotesi eccezionale di una modificazione dei termini della controversia determinata dalla sentenza rescindente, e pertanto aveva ritenuto inammissibile la richiesta di produzione di nuovi documenti, non esercitabili i poteri istruttori di parte e neppure i poteri di ufficio, in quanto le relative richieste erano volte inammissibilmente non alla migliore valutazione di elementi istruttori già acquisiti, ma alla acquisizione di prove su fatti nuovi”.

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info@codexa.it (di Antonio Belsito) Controversie di Lavoro Mon, 19 Oct 2009 19:40:22 +0000