Penale del lavoro - CSDDL.it - Centro Studi Diritto Dei Lavori Centro Studi Diritto dei Lavori - Bisceglie - A cura dell'Avv. Antonio Belsito e del Prof. Gaetano Veneto http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/ Fri, 12 Mar 2021 13:04:00 +0000 Joomla! 1.5 - Open Source Content Management it-it L’ingiusto compromesso fra il diritto alla salute e il diritto al lavoro http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/l-ingiusto-compromesso-fra-il-diritto-alla-salute-e-il-diritto-al-lavoro.html http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/l-ingiusto-compromesso-fra-il-diritto-alla-salute-e-il-diritto-al-lavoro.html L’INGIUSTO COMPROMESSO FRA IL DIRITTO ALLA SALUTE E IL DIRITTO AL LAVORO 

di Tommaso Frendo* 

Riflessione giuridica 

[...]

In qualità di Coordinatore provinciale ONA Pisa, ringrazio i membri del Consiglio Direttivo del Comitato pisano che, ognuno nel proprio ambito professionale, attraverso l’entusiasmo e la passione che ognuno di noi nutre nel confronti della “verità”, a partire da quest’anno (il comitato è stato costituito in data 03/02/2013) si sono prefissati di “far proprie” le finalità statutarie dell’Osservatorio Nazionale Amianto.

Il nostro obbiettivo primario è quello di tutelare il diritto alla salute in ogni ambito di esplicazione della vita umana, promuovendo i diritti costituzionalmente garantiti, con particolare riferimento alla sfera del lavoratore.Ringrazio infine gli illustri relatori che si sono resi disponibili ed hanno accettato di trattare (sia da un punto di vista giuridico che sotto il profilo scientifico) questa tematica che assume una rilevanza tanto attuale quanto (purtroppo) futura. Dico futura in ragione della durata relativa all’incubazione delle malattie asbesto correlate che, come il Pubblico Ministero Dott. Maurizio Ascione insegna, ha reso e continua a rendere complicata l’individuazione di un profilo di responsabilità da attribuire in capo ad un determinato soggetto. Una tematica attuale, futura, spesso sottovalutata e che oggi più che mai trova alle proprie basi un ingiusto compromesso fra due diritti che, se non altro la nostra carta più importante, definisce come fondamentali.

Il Professor Gaetano Veneto, che ho avuto il piacere e l’onore di ascoltare ad un suo importante intervento lo scorso novembre a Roma presso la Camera dei Deputati, lo definiva un falso dilemma. Si, perché di un falso dilemma si tratta. Quando parliamo da una parte di “salute” e dall’altra parte di “lavoro”, non possiamo permetterci di cadere nell’alternativa che ci vede costretti a far si che un diritto sia sottomesso dall’altro.

Eppure l’art. 41 della nostra Costituzione parla molto chiaro: “L’iniziativa economica non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza delle persone”.Da una parte vi è il diritto alla vita, ad avere salute.Un diritto così importante da non riguardare soltanto la sfera giuridica del singolo individuo, ma (proprio in ragione del suo carattere primario) fondamentale al punto di riflettersi sulla collettività, comprendendo quindi l’obbligo inderogabile di non porre a rischio la salute altrui attraverso la propria condotta. Un valore costituzionale supremo[1].

Dall’altra parte vi è il diritto al lavoro. Un diritto che magari, a primo impatto (e soprattutto di questi tempi), risulta un un pò meno simpatico, ma che se viene inteso nel suo senso più profondo (ed è così che dovrebbe essere inteso) non è che il diritto a realizzarsi essendo qualcosa, facendo qualcosa, dall’operaio al dirigente, per essere i protagonisti di una società e per cambiarla sempre in meglio.In fondo, è la stessa Costituzione[2] che attribuisce al lavoro il difficile incarico di sostenere la Repubblica Italiana, non soltanto ponendo il diritto al lavoro come “fondamenta” del nostro paese, ma salvaguardandolo attraverso la promozione di tutte quelle condizioni tali da rendere effettivo questo diritto nei confronti di tutti i cittadini[3]. Perché sia un “diritto vivo”, che concorra al progresso del nostro Paese. Nel cercare invano di trovare una risposta a questo dilemma, sforzandomi di osservare lo scenario con gli occhi del giurista, estremizzando (e ritengo che talvolta sia utile farlo per capire quella che è la reale posta in gioco) mi è venuto in mente un celebre romanzo di William Stayron dal titolo “La scelta di Sophie”[4]. Il romanzo racconta di come una giovane madre polacca di origini ebraiche fu deportata ad Auschwitz con i propri figli, per poi essere crudelmente costretta a scegliere dai nazisti quale fra i due figli far morire. Alla fine la giovane Sophie deciderà di salvare il figlio Jan sacrificando quindi la piccola Eva. Essa farà i conti con questa decisione per il resto della sua vita. Perché in realtà, anche se da un punto di vista aritmetico e razionale salvare una vita è sempre meglio che non salvarne nessuna, da un punto di vista etico e morale esistono scelte che per la loro natura non possono essere fatte[5].Tuttavia, nel riflettere ho capito che a trovarsi nella situazione della madre non vi era il giurista, bensì il lavoratore.Ma come può un lavoratore chiedersi (e mi riferisco a ciò che sta accadendo a Taranto “Caso Ilva” ma non solo) se preferisce morire di fame in pochi mesi piuttosto che di tumore fra venti anni, facendo ammalare anche sua moglie e magari i suoi figli? E allora, il compito di ogni giurista che si rispetti (inteso come legale, magistrato o studioso che sia) è quello di compiere la difficile operazione che consiste nel cercare di evitare di giungere a quella tragica scelta. Ciò dovrà essere fatto senza finzioni e false soluzioni. Senza fingere quindi di aver salvato entrambi i bambini quando in realtà uno dei due è stato sacrificato e sostituito con un fantoccio. Eppure, sia i progressi tecnologici che gli esempi di altri paesi europei, mostrano che non c’è alcun bisogno di contrapporre salute e lavoro. Anzi, il diritto alla salute e il diritto al lavoro possono e devono andare di pari passo, fondendosi quindi entrambi in un unico diritto, il diritto alla vita.

Il convegno di oggi, in un certo senso, sia attraverso la scienza che attraverso il diritto si prefigge anche questo. Cercando di fornire quella consapevolezza necessaria che serve per far si che questo ricatto non sia mai più tollerato. Perché come fa un giurista a scegliere quale fra questi due diritti far prevalere?Come può una madre decidere quale figlio sacrificare?

Vi ringrazio ancora e vi auguro di seguire un convegno piacevole e interessante.Grazie a voi.         



* Dalla relazione al Convegno giuridico: “Amianto tra scienza e diritto” organizzato presso la Scuola Superiore di Studi e di Perfezionamento Sant’Anna di Pisa, luglio 2013.
[1] Art. 32 Cost.
[2] Art. 1 Cost.
[3] Art. 4 Cost.
[4] W. Stayron, La scelta di Sophie (Sophie’s Choice), Mondadori, 2001.
[5] M. Marzano, L’Ilva e la trappola del falso dilemma, La Repubblica, 2012.
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info@codexa.it (di Tommaso Frendo) Diritto penale del lavoro Tue, 22 Oct 2013 14:56:34 +0000
La Corte di Appello di Torino conferma le responsabilità di Schmidheiny http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/la-corte-di-appello-di-torino-conferma-le-responsabilita-di-schmidheiny.html http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/la-corte-di-appello-di-torino-conferma-le-responsabilita-di-schmidheiny.html La Corte di Appello di Torino conferma le responsabilità di Schmidheiny.

Appello ONA perché la Procura della Repubblica di Torino chieda il sequestro dei suoi beni ed istruisca al più presto gli altri processi

di Ezio Bonanni

La Corte di Appello di Torino, con sentenza  del3 giugno 2013, Pres. Oggé, imp. Schmidheiny ed a., ha confermato la condanna già emessa in primo grado a carico del Magnate Svizzero Stephan Schmidheiny, aggravandone la pena a 18 anni di reclusione, mentre ha dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell’altro imputato, il barone belga Louis De Cartier De Marchienne, deceduto poche settimane prima della sentenza di Appello, portando la pena a 18 anni di reclusione.

Il dispositivo riporta l’assoluzione per i periodi in cui non rivestivano le posizioni di garanzia negli stabilimenti italiani, mentre, in riforma della sentenza di primo grado, in accoglimento dell’appello del Pubblico Ministero, sollecitato anche dall’Avv. Ezio Bonanni, legale di alcuni dei familiari delle vittime, riforma i capi della sentenza di primo grado, emette condanna a carico di Stephan Schmidheiny anche per i disastri di Rubiera e Napoli Bagnoli, ed accoglie anche l’appello dell’Avv. Ezio Bonanni, il quale aveva lamentato delle mancate pronunce risarcitorie nella sentenza di primo grado e coloro che hanno diritto ad ottenere il risarcimento dei danni).

Le motivazioni della sentenza di appello sono state depositate il 03.09.2013 e, in 800 pagine, confermano tutti i fatti e le circostanze messe in evidenza dalla pubblica accusa e dai difensori delle parti civili e sono state pubblicate integralmente dall’Osservatorio Nazionale Amianto (http://osservatorioamianto.jimdo.com/vertenza-eternit-casale-monferrato-cavagnolo-rubiera-bagnoli-e-siracusa/), e il dato più agghiacciante è che “la produzione del cemento amianto in Italia   è proseguita per quasi un decennio in Italia dopo che fu resa nota la sua pericolosità ‘solo per effetto dell’opera di disinformazione consapevolmente promossa’ da Stephan Schmidheiny”.

Non si può prescindere dal fatto che la legge n. 80 del 17.03.1898 (G.U. n. 175 del 31.03.1898) e dall’ l’art. 7 del R.G. (G.U. n. 148 del 26.06.1899), hanno sancito l’obbligo dell’adozione dei presidi di protezione individuale per la difesa dalle polveri, quindi hanno enfatizzato il ruolo “dell’approccio protezionistico” che non agisce eliminando, o almeno riducendo quasi a zero, il rischio esterno ma interviene amplificando il ruolo primario di protezione attiva da parte del “Soggetto” oggetto del danno.Il Tribunale di Torino (proc. n. 1197/1906), rigettava la domanda risarcitoria di Bender e Martiny e The British Asbestos Company Limited nei confronti dell’Avv. Carlo Pich e del gerente Arturo Mariani, redattori de “Il progresso del Canavese e delle Valli di Stura”, edito a Ciriè, poiché negli articoli non c’era nulla di falso in quanto quella dell’amianto è “fra le industrie pericolose […] le particelle […] vengono a ledere le vie delli apparati respiratorii, […] fino al polmone, predisponendole allo sviluppo della tubercolosi, facilitandone la diffusione aumentandone la gravità”. La decisione venne confermata con la Sentenza n. 334 del 28.05.1907 della Corte di Appello di Torino, poiché “la lavorazione di qualsiasi materia che sprigioni delle polveri [...] aspirate dall'operaio, sia dannosa alla salute, potendo produrre con facilità dei malanni, è cognizione pratica a tutti comune, come è cognizione facilmente apprezzabile da ogni persona dotata di elementare cultura, che l'aspirazione del pulviscolo di materie minerali silicee come quelle dell'amianto [...] può essere maggiormente nociva, in quanto le microscopiche molecole volatilizzate siano aghiformi od almeno filiformi ma di certa durezza e così pungenti e meglio proclivi a produrre delle lesioni ed alterazioni sulle delicatissime membrane mucose dell'apparato respiratorio”. Il regio decreto 442 del 14.06.1909 includeva la filatura e tessitura dell'amianto tra i lavori insalubri o pericolosi. Benedetto Croce, in data 11.06.22 presentò al Senato del Regno la proposta di legge n. 778 “per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico, che “civiltà moderna si sentì il bisogno di difenderle, per il bene di tutti … che danno all’uomo entusiasmi spirituali così puri e sono in realtà ispiratrici di opere eccelse”. Il Regolamento generale per l’igiene del lavoro (R.D. n.530 del 14/4/1927, Approvazione del regolamento generale per l’igiene del lavoro, G.U. 25/4/1927 n. 95) ha dettato norme di prevenzione e protezione e per le polveri all’art. 17 per disporne l’aspirazione e limitarne la diffusione nell’ambiente e la protezione degli operai anche con dispositivi individuali. La convenzione n. 18 del 19.05.1925, ratificata con R.d.l. 1792 del 04.12.33 (G.U. 10.01.1934) estendeva l’assicurazione sociale anche alle malattie professionali, che così venivano indennizzate, e la convenzione n. 19 del 19.05.25, ratificata con L. n.2795 del 29/12/1927 (G.U. n.38 del 15/5/1928), ne sanciva il riconoscimento anche ai lavoratori stranieri, unitamente agli infortuni sul lavoro, coerentemente alla raccomandazione n. 24 del 19.05.1925 emanata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, avente ad oggetto l’indennizzo della malattie professionali (L’assurance-maladie - BIT, L’assurance-maladie, n. 4, Genève 1925). “E’ … certo ed incontestabile che l’integrità personale dell’uomo e la sua salute (sommi beni che trascendono dalla sfera dell’individuo per assurgere ad importanza sociale, come necessaria premessa della conservazione e del miglioramento della specie) sono protette non soltanto dal contratto, ma altresì da numerose leggi di pulizia sanitaria e perfino dal Codice Penale” (Corte di Cassazione civile, sentenza n. 2107 del 28.04.1936, pubblicata il 17.06.1936), e “le forme assicurative predisposte per garantire gli operai contro talune malattie professionali tassativamente elencate, non dispensano i datori di lavoro dall’obbligo contrattuale di usare la dovuta diligenza nella propria azienda, per evitare danni ai lavoratori (anche se compresi nella previdenza assicurativa), adottando tutti i mezzi protettivi prescritti o suggeriti dalla tecnica e dalla scienza. Il dovere di prevenzione, che l’art. 17 r.d. 14 aprile 1927, n. 530, sull’igiene del lavoro, impone per il lavoro che si svolga in ‘locali chiusi’ va osservato in tutti quei casi in cui il luogo di lavoro, pur non essendo completamente chiuso, non sia tale da permettere comodamente e senza pericolo la uscita dei vapori e di qualsiasi materia nociva”: la colpa risiede nell’assenza di “aspiratori” in “locali non perfettamente chiusi” e di “maschere per i lavoratori” e nella negligenza e imprudenza rispetto all’“allarme dato dagli scienziati” sulla pericolosità delle polveri (Cass. sent. n. 682 del 20.01.1941, pubblicata il 10.03.1941, Soc. acciaierie elettr. c. Panceri); poiché per le “malattie professionali non garantite da assicurazione obbligatoria il datore di lavoro non può esimersi da responsabilità se l’evento dannoso si sia prodotto per sua colpa” (Corte di Cassazione, sentenza 17.01.1941, Soc. off. elettroferro Tallero c. Massara), né può costituire un esonero il fatto che “gli operai non avevano mai denunziato disturbi […] perché la silicosi insidia insensibilmente l’organismo del lavoratore fino alle manifestazioni gravi che causano l’incapacità al lavoro sicché il lavoratore non è in grado di accorgersene in precedenza”, poiché l’art. 2 del r.d. 530 del 1927, “prescrive al datore di lavoro di avvertire preventivamente il lavoratore del pericolo, di indicargli i mezzi di prevenzione adatti” e l’art. 17 “prescrive l’aspirazione della polvere immediatamente vicino al luogo ove viene prodotta” (Corte di Cassazione, II^ Sezione civile, sentenza n. 686 del 17.01.1941), cui corrisponde la norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c. (r.d. 16.03.1942, n. 262), con la quale si impone all’imprenditore di “adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Il 25.01.1943 il Ministro delle Corporazioni presentava presso la Camera il disegno di legge n. 2262 per l’“estensione dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali alla silicosi ed asbestosi”, “scopo 1. proteggere … in sede di prevenzione tecnica … i lavoratori, tracciando e imponendo agli imprenditori un piano razionale e completo di prevenzione; 2. tutelare la salute dei lavoratori entrando con decisione nel settore delle malattie polmonari”, con l’indennizzo per i lavoratori, che fu approvato con la l. 455 del 12.04.1943. La Costituzione della Repubblica Italiana del 01.01.1948, “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, interesse della collettività” (art. 32)[1].

Quindi il danno che le fibre di amianto erano in grado di determinare alla salute e all’ambiente era ben noto a Stephan Schmidheiny e alla sua famiglia, e quindi risulta dimostrato il dolo rispetto alle ipotesi di reato rispetto agli artt. 434 e 437 del codice penale[2].

All’udienza del 03.06.2003, la Corte di Appello di Torino, ha pienamente accolto le tesi del P.M. Dott. Raffaele Guariniello, sostenute anche dai legali delle vittime e dei loro familiari, e ha pertanto rigettato l’appello che avevano avanzato i due imputati, quali figure apicali della multinazionale dell’amianto -rectius, l’unico superstite dei due (lo svizzero Stephan Schmidheiny), mentre per l’altro (il belga Louis de Cartier de Marchienne) c’è stata la declaratoria di non doversi procedere, poiché è deceduto poche settimane prima della fine del processo di appello, in quanto hanno cagionato, violando tutte le norme cautelari (artt. 4, 18, 19, 20 e 21 del DPR 303/56, artt. 377 e 387 del DPR 547/55, ed art. 2087 c.c.), con coscienza e volontà, e hanno cagionato migliaia di malattie e morti tra i lavoratori e la popolazione residente nei pressi dei poli produttivi (collocati a Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera e Napoli-Bagnoli, mentre per quello di Siracusa, in seguito all’esposto dell’Osservatorio Nazionale Amianto e dell’Avv. Ezio Bonanni che assistono oltre 100 familiari e alcuni sopravvissuti, nel febbraio del 2012 sono iniziate ulteriori indagini da parte del Procuratore della Repubblica Dott. Raffaele Guariniello), oltre che di disastro ambientale, ancora ad oggi perdurante.

La sentenza di primo grado aveva giudicato entrambi gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti, ossia l'omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoroaggravata dalla verificazione di infortuni (art. 437, co. 1 e 2 c.p.), ed il disastro innominato doloso, anch'esso aggravato dall'ipotesi di cui al capoverso della normasub specie di disastro ambientale (art. 434, co. 1 e 2 c.p.). Gli ex manager di Eternit erano stati condannati alla pena di sedici anni di reclusione ciascuno.Le motivazioni della Sentenza di appello della Corte di Torino confermano la fondatezza dell’impianto accusatorio e la sussistenza del dolo nella condotta dell’imputato Stephan Schmidheiny, e tutto quanto già messo in evidenza dalla pubblica accusa sostenuta dal Procuratore di Torino, Dott. Guariniello, e dai legali delle vittime e dei loro familiari che si sono costituiti parte civile, per ottenere giustizia, e l’integrale risarcimento di tutti i danni.In sintesi, la Corte di Appello di Torino:

a) assolve gli imputati dai reati loro ascritti, per non aver commesso il fatto, in relazione ai fatti relativi ai periodi in cui non hanno rivestito la posizione di garanzia per gli stabilimenti italiani della multinazionale Eternit (ossia dal 1952 al 1966, per l'imputato Louis de Cartier de Marchienne; dal 1952 al 1974, per l'imputato Stephan Schmidheiny)[3]; e assolve inoltre l'imputato Louis de Cartier de Marchienne dai reati lui ascritti con riferimento allo stabilimento di Rubiera, per non aver commesso il fatto.

b) Si dichiara il non doversi procedere nei confronti dell’imputato Louis de Cartier de Marchienne per sua sopravvenuta morte, per quei fatti e quelle condotte per i periodi a partire dal 1966, periodo nel quale ha rivestito il ruolodi amministratore delegato dell’Eternit.

c) Con riferimento ai diversi periodi in cui, a partire dal 1974, l'imputato Stephan Schmidheiny esercitò l'effettiva gestione degli stabilimenti italiani della Eternit, la sentenza:

  • relativamente al capo A) dell'imputazione, ossia al delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravato dalla verificazione di infortuni (art. 437, co. 1 e 2 c.p.), dichiara non doversi procedere per essere il reatoestinto per prescrizione;
  • relativamente al capo B) dell'imputazione, ossia ai delitti di disastro innominato doloso, aggravati dalla verificazione del disastro (art. 434, co. 1 e 2 c.p.), e avvinti dall'unicità del disegno criminoso, condanna l'imputato alla pena di diciotto anni di reclusioneestendendone la responsabilità anche agli stabilimenti di Rubiera e Napoli-Bagnoli (in relazione ai quali la sentenza di primo grado aveva invece dichiarato la prescrizione dei reati, rendendo necessaria l’istanza che alcuni familiari delle vittime partenopee, assistiti dall’Avv. Ezio Bonanni, inoltrarono al Procuratore della Repubblica Dott. Raffaele Guariniello, il quale con dedizione, capacità e senso di giustizia, ha impugnato la Sentenza del Tribunale di Torino nei capi assolutori, riferiti alla condotta degli imputati per il sito  Eternit Napoli-Bagnoli, tanto da permettere alla Corte di Appello di Torino di riconsiderare la fattispecie, e quindi ritenere non sussistente la prescrizione, e conseguentemente condannare Stephan Schmidheiny  anche per questi fatti, e quindi facendo giustizia di queste vittime - mentre rimane aperta la questione, sempre sollevata dall’Osservatorio Nazionale Amianto della individuazione e affermazione delle responsabilità per quanto riguarda il sito Eternit di Siracusa, per il quale le indagini della Procura della Repubblica di Torino sono iniziate soltanto con gli esposti inoltrati a partire dal febbraio 2012, e con l’assistenza dell’Avv. Ezio Bonanni), e confermando altresì a suo carico le pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell'interdizione legale per la durata della pena, con riforma in ordine alla incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione che rispetto alla Sentenza di primo grado è venuta meno.

d) In ordine alle statuizioni civili, rispetto alle quali l’Avv. Ezio Bonanni aveva impugnato la Sentenza di primo grado, in quanto carente in ordine alla condanna al risarcimento dei danni per alcune delle vittime, la Sentenza della Corte di Appello in parte conferma e in parte riforma la decisione di primo grado, come si evince dal dispositivo. Si evidenzia che l’unico imputato superstite Stephan Schmidheiny, in solido con le società responsabili civili facenti parte del gruppo Eternit, è stato condannato al risarcimento di danni - per molte decine di milioni di euro - a favore di enti territoriali, sindacati, associazioni e parti civili persone fisiche. Con riferimento a queste ultime, si segnala che la pronuncia da un lato accoglie numerose richieste risarcitorie non contemplate dalla sentenza di primo grado; dall'altro lato, riconosce il diritto al risarcimento del danno a favore di un numero di persone fisiche (pari a 932) complessivamente di gran lunga inferiore a quello indicato dal Tribunale di Torino nella Sentenza di primo grado (oltre 2000).

Oltre alla condanna dell' (ormai unico) imputato anche per i disastri di Rubiera e Napoli-Bagnoli, tra i principali profili di riforma della pronuncia di primo grado vi è senz'altro la dichiarazione di prescrizione del delitto di cui al capo A) dell'imputazione,non legato al mero trascorrere del tempo per la decorrenza del giudizio.

Il Tribunale, infatti, aveva individuato tanti delitti ex art. 437 co. 2 quante erano le vittime tra i lavoratori della Eternit, ed aveva fissato il relativo tempus commissi delicti al momento della manifestazione o della diagnosi della malattia, in coerenza con la natura di fattispecie autonoma assegnata all'ipotesi prevista dal capoverso[4]. Applicando questo criterio, è del tutto evidente come al momento della pronuncia di secondo grado (3 giugno 2013) molti dei reati ex 437 co. 2 c.p. - e in particolare tutti quelli, assai numerosi, in cui la diagnosi della patologia si colloca dopo il 3 dicembre del 2000, il termine di prescrizione dell'art. 437 co. 2 c.p. potendo raggiungere i dodici anni e sei mesi [5] - non sarebbero affatto risultati prescritti. L'esito decisionale cui è pervenuta la Corte d'appello, pertanto, è verosimilmente addebitabile ad una diversa - ed evidentemente più arretrata - collocazione del tempus commissi delicti.

L’Osservatorio Nazionale Amianto ONLUS, associazione rappresentativa degli esposti e delle vittime dell’amianto, ha fornito e fornisce assistenza a tutte le vittime e ai loro familiari, per ottenere tutela legale e giudiziaria, e il riconoscimento dei diritti previdenziali e assistenziali, oltre all’integrale risarcimento dei danni, a carico di Stephan Schmidheiny e delle società del suo gruppo.

Quest’ultimo aspetto è problematico, in quanto Stephan Schmidheiny è rimasto contumace e non ha nessuna intenzione di risarcire i danni subiti dalle vittime e dai loro familiari, e le stesse società del suo gruppo, dichiarate responsabili civili, non intendono ottemperare alle statuizioni civili della Sentenza della Corte di Appello di Torino, e sicuramente ne impugneranno la decisione innanzi la Corte di Cassazione, la quale però non potrà entrare nel merito e dovrà decidere solo su questioni di diritto.L’Avv. Ezio Bonanni, difensore di parte civile nel processo eternit, nel corso del giudizio di primo grado, avendo previsto che difficilmente il magnate svizzero Stephan Schmidheiny potesse essere concretamente chiamato a risarcire le vittime e gli enti pubblici danneggiati,  in quanto si sarebbe trincerato sulle sue potenti amicizie, aveva chiesto la chiamata in causa quale responsabile civile della Repubblica Italiana, perché rispondesse in solido con gli imputati, che era stata accolta dal Tribunale di Torino, con provvedimento del 13.12.2012.

L’Avv. Ezio Bonanni, nel corso del processo Eternit, ha evidenziato come lo Stato italiano fosse stato per molto, troppo, tempo particolarmente accondiscendente con il magnate svizzero e con la sua famiglia, e ne aveva evidenziato i suoi rapporti con un vasto sistema di potere, poi per altro confermato dalle motivazioni della sentenza di primo grado e aveva chiesto che l’On.le Romano Prodi, già Presidente del Consiglio, fosse escusso come teste per riferire i motivi alla base del provvedimento di indulto per la pena di tre anni proposto dal suo governo, ed esteso anche ai reati per i quali la Procura della Repubblica di Torino aveva iscritto nel registro Stephan Schmidheiny, tenendo presente che questa misura era finalizzata ad alleggerire il sovraffollamento carcerario, salvo il fatto che né il magnate svizzero né altri erano detenuti, e che anzi nessuno tra gli indagati e i condannati per questi reati e per quelli legati alla violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro risultasse detenuto e in ordine ai suoi rapporti con il Governo Italiano.

L’Avv. Ezio Bonanni ha chiesto alla Procura della Repubblica di Torino e alle altre Autorità di individuare i beni di Stephan Schmidheiny e di disporne il sequestro, oltre che di mettere in esecuzione la pena detentiva, poiché il disastro è ancora in corso, e per la pervicace condotta dell’imputato nel perpetuare le conseguenze dei reati poste in essere e per l’assenza di ogni segno di ravvedimento, e anche di umana pietà per le migliaia di persone di cui ha volontariamente cagionato la morte per realizzare la sua sete di profitto.  


[1] La storia dell’amianto nel mondo del lavoro”, Centro Studi Diritto dei Lavori, Anno VI, numero 1.

[2] Per un commento analitico della Sentenza di primo grado: "La storia dell'amianto nel mondo del lavoro", edito da ONA, novembre 2012.

[3] Il dispositivo fa emergere che la sentenza d'appello ha reintegrato, sotto il profilo del tempus commissi delicti, gli originari capi di imputazione, i quali attribuivano agli imputati i fatti commessi - non già soltanto dal 1966 in poi, come aveva in un secondo momento disposto il Tribunale con ordinanza modificativa dell'imputazione adottata all'udienza del 20 dicembre 2010 (v. il testo delle motivazioni di primo grado, pp. 90 e 186), bensì  - sin dall'aprile 1952. Revocando le statuizioni relative al tempus commissi delicti contenute nell'ordinanza del 20 dicembre 2010, la Corte d'appello ha ottenuto l'effetto di ripristinare l'originaria imputazione.

[4] Più ampiamente: "La storia dell'amianto nel mondo del lavoro", edito da ONA, novembre 2012.

[5] Pena massima pari a 10 anni, ai quali si aggiungono ulteriori due anni e mezzo per gli effetti delle interruzioni dovute al rinvio a giudizio e alla condanna.   

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info@codexa.it (di Ezio Bonanni) Rassegna giurisprudenziale Tue, 22 Oct 2013 13:57:24 +0000
Sentenza GUP Bari sulla tratta di persone e riduzione in schiavitù http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/sentenza-gup-bari-sulla-tratta-di-persone-e-riduzione-in-schiavit.html http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/sentenza-gup-bari-sulla-tratta-di-persone-e-riduzione-in-schiavit.html TRATTA DI PERSONE E RIDUZIONE IN SCHIAVITU'

Talvolta la realtà può superare la fantasia, come avviene in questo caso dove giovani donne e uomini rumeni bisognosi di lavoro accettano e si fidano di connazionali che promettono loro un posto di lavoro e una adeguata retribuzione in Italia. Tale sogno presto si trasforma in un incubo dal cui non c’è via d’uscita. A costoro non verrà risparmiata alcuna violenza né psichica né fisica, vittime dei loro aguzzini e dei loro giochi di potere. Problemi insorgono quando la associazione per delinquere in questione, opera come si desume dalla contestazione del fatto storico, ben prima l’entrata in vigore della legge introduttiva del reato “transazionale”. 

G.U.P. Bari

Sentenza 22 febbraio – 22 maggio 2008 n. 198

(Giudice Dr. Antonio Lovecchio) 

Nota di Claudia di Bitetto 

La sentenza in commento ben motivata con puntuali e chiare argomentazioni giuridiche-sociali, offre interessanti spunti di riflessione.Iniziando con il dato fattuale è importante sottolineare che gli imputati si associavano tra loro, dando vita ad una organizzazione criminale transnazionale, operante in Polonia ed in Italia, prevalentemente nella provincia di Foggia, strutturata per “cellule” che, pur avendo margini di autonomia, erano strettamente collegate tra di loro in un costante rapporto di mutualità, supporto e collaborazione reciproca.

Tale organizzazione aveva lo scopo di realizzare più delitti, tra i quali, quelli di tratta di persone ex art 601 c.p. e riduzione e mantenimento in schiavitù e/o servitù) ex art. 600 c.p, attuati con le modalità descritte di seguito:

- pubblicazione, su giornali e siti internet, di annunci ingannevoli per lavori in agricoltura da effettuarsi in Italia;

- reclutamento in Polonia, attraverso i predetti annunci, di persone indigenti, sovente di un sufficiente livello culturale, quindi, in “stato di necessità” o di inferiorità;

- trasferimento in Italia delle inconsapevoli vittime, effettuato a mezzo di furgoni e pullman nella disponibilità dell’organizzazione;

- riduzione e mantenimento delle vittime, mediante inganno, violenza e minacce, approfittando di situazioni di inferiorità fisica e psichiche e di situazioni di necessità, in uno stato di soggezione continuativa, comportante lo sfruttamento delle stesse e delle loro prestazioni lavorative.

Nel mondo romano classico lo schiavo addetto ai lavori agricoli godeva di minori privilegi rispetto al servus urbano nelle prospettive di profitto che animavano il dominus in vista di una successiva vendita di quest’ultimo come “res” che poteva conservare un valore solo se ben conservata.

Tale prospettiva era, invece, inconcepibile per un componente della famiglia rustica in quanto la ricchezza derivava dal loro completo sfruttamento, circostanza che comportava la sottoposizione dello schiavo a prestazioni lavorative che lo esaurivano, determinandone, come le macchine, una obsolescenza.Gli schiavi, quindi, erano res equiparate agli animali definiti in strumenta semivocalis, così distinti dalle persone che subivano la condizioni servili chiamati in strumenta vocalis.Per ovvie ragioni le fughe degli schiavi erano precluse con ogni mezzo.

La descrizione storica, purtroppo, non si discosta da ciò che si evince dalla risultanza delle indagini del caso de quo come ad esempio alloggi fatiscenti, prestazioni lavorative senza determinazioni di tempo, mancato pagamento della retribuzione o corresponsione di un salario irrisorio, violenze fisiche e mentali, minacce talvolta gratuite, altre volte finalizzate ad interdire vie di fuga.

E’ insostenibile la tesi che sostiene che si sia costituito un rapporto di lavoro a condizioni diverse da quelle promesse poiché per essere costituito un rapporto di lavoro vi deve essere un incontro di volontà, anche se tacito. L’uso della violenza o della minaccia nel momento genetico del sorgere del rapporto di lavoro rende radicalmente nullo il consenso del prestatore perché l’inganno si trasforma in violenza fisica.

L’incontro della volontà finalizzato alla costituzione di un valido rapporto di lavoro, deve ritenersi inesistente perché l’iniziale consenso è stato travolto dalla nuova proposta di una diversa retribuzione, di un alloggio fatiscente e dell’obbligo a prestare attività lavorativa con metodi violenti. E la nuova proposta non è stata mai volutamente accettata.

Vanno richiamati anche gli elementi di prova che attestano la conoscenza, risalente ad almeno due anni prima l’accertamento dei fatti, la frequentazione, lo sfruttamento della manodopera da parte di tutti i capi-cellula, l’adozione dei metodi identici per il reclutamento, per garantirsi la permanenza delle vittime nei loro campi e lo sfruttamento del loro lavoro, per evitare le fughe, la standardizzazione delle pessime condizioni abitative, il sistema di spogliare ogni operario del denaro con l’imposizione di spese anch’esse analoghe nella natura per concludere che tali scelte non erano conseguenza di occasionali, temporanei o estemporanei accordi dell’uno o dell’altro dei capi cellula, ma frutto di una pianificazione tesa al conseguimento di un illecito profitto a mezzo dell’altrui attività lavorativa.

E’ anche significativo evidenziare che tutte le cellule al loro interno si presentavano con una struttura che prevedeva il coordinamento di un capo affiancato da un “caporale” o da altri sottoposti, come pure va rappresentato lo scambio continuo di mezzi che non possono, quindi, ritenersi nella esclusiva disponibilità di un capo cellula, ma che venivano posti a disposizione dell’intero sodalizio per la sua efficienza e per il raggiungimento di fini condivisi da tutti gli associati per delinquere.

Altro elemento che merita rilevanza è la transnazionalità del reato.

L’art. 3 della legge 146/2006 definisce qualifica e definisce “reato transazionale” il reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni di reclusione, qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato, nonché:

- sia commesso in più di uno Stato;

- sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione e controllo avvenga in un altro Stato;

- sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicito in un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminale in più di uno Stato;

- ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato.

La gravità dei reati è nella coscienza sociale dell’intera collettività umana, come si evince dall’adesione di un numero considerevole di Stati alle varie risoluzioni delle Nazioni Unite sull’argomento, che ripudiano forme di sfruttamento dell’uomo sull’uomo peraltro dettati da fini meramente economici.

Sul piano soggettivo è indiscutibile la mancanza di ogni forma di ravvedimento avendo fino all’ultimo atto processuale i predetti imputati mostrato la mancanza di una sia pure tardiva pietas nei confronti delle numerose vittime sottoposte al loro potere, attestandosi su difese che ulteriormente umiliavano le vittime.

 

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info@codexa.it (Administrator) Rassegna giurisprudenziale Sun, 04 Nov 2012 18:14:19 +0000
Il processo ILVA di Taranto http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/il-processo-ilva-di-taranto.html http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/il-processo-ilva-di-taranto.html

IL PROCESSO ILVA DI TARANTO

 

La questione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche

 

di Mario Tagliaferro

 

Lo scorso 17 febbraio si è celebrato presso il Tribunale di Taranto il primo atto dell’incidente probatorio nel procedimento penale a carico dello stabilimento ILVA di Taranto.

Di fronte al GIP Patrizia Todisco i vertici dell’ILVA, Emiliano Riva, il figlio Nicola e tre dirigenti, rispondono delle accuse profilate dal Procuratore Sebastio e dal PM Buccoliero, la cui discovery parziale parla di disastro colposo e doloso, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, inquinamento atmosferico, danneggiamento aggravato di beni pubblici e sversamento di sostanze pericolose. In particolare, per i periti incaricati dalla Procura, dall’ILVA «si diffondono gas, vapori, sostanze aeriformi e solide contenenti sostanze pericolose per la salute dei lavoratori operanti all’interno degli impianti e per la popolazione». Preoccupa, inoltre, la dispersione nell’aria delle «sostanze non convogliate», cioè le fuoriuscite causate da perdite, buchi, crepe, carenze degli elettrofiltri, oltre alla polvere stoccata e non smaltita. Ed è per questi motivi che tra le ipotesi di misure cautelari reali al vaglio degli inquirenti vi è anche il sequestro di alcuni impianti ed in particolare della cokeria, con il conseguente rischio di chiusura.

E così, la settimana che era iniziata con la storica sentenza del Tribunale di Torino sul caso Eternit, trova eco nelle migliaia di persone che esprimevano la loro protesta al di fuori del Tribunale di Taranto.

La difesa dell’ILVA, lo stabilimento siderurgico che con i suoi 13.000 dipendenti circa ed un’estensione di oltre 15.000.000 di mq è il più grande d’Europa, è che l’azienda non ha mai violato i parametri di emissione.

La questione, insomma, è nota: le ragioni del lavoro e della sopravvivenza di un territorio altrimenti povero a confronto con la tutela di beni fondamentali quali la salute dei lavoratori, della popolazione e la tutela dell’ambiente.

Sul piano strettamente giuridico, però, il tema suscita inevitabilmente altre suggestioni stimolate dalle recenti riforme del D.lgs. n. 231/2001 in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: parliamo, in particolare, degli aggiornamenti del catalogo dei reati presupposto della suddetta responsabilità amministrativa con l’introduzione dell’art. 25-septies (Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro) e dell’art.  25-undecies (Reati ambientali).

È noto che la normativa richiamata delinea un tertium genus di responsabilità dell’ente rispetto ai tradizionali canoni di responsabilità penale ed amministrativa, caratterizzato da una nuova forma di colpevolezza per omissione organizzativa e gestionale, meglio definita anche come colpa di organizzazione.

La persona giuridica, infatti, è chiamata a rispondere nel caso in cui una persona fisica, legata alla prima da un rapporto funzionale, abbia commesso, nell’interesse o a vantaggio di essa, uno dei c.d. reati presupposto di cui al capo I, sez. III del D. ls. 231/2001.

In particolare, se il reato presupposto è commesso da un soggetto in posizione apicale nell’interesse o a vantaggio dell’ente, quest’ultimo si presuppone responsabile ex art. 6 del D.lgs. 231/2001 a meno che, invertendo l’onere della prova, dimostri di aver adottato efficacemente un modello organizzativo e gestionale in grado di prevenire la commissione dei reati contestati alla persona fisica. Viceversa, qualora il reato presupposto è commesso da un soggetto in posizione subordinata, l’ente risulterà responsabile ex art. 7 solo laddove sia la pubblica accusa a dimostrare che la realizzazione dell’illecito sia stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza, ferma restando in capo alla persona giuridica la più ampia facoltà di fornire la prova liberatoria dell’adozione di un idoneo modello organizzativo.

Pertanto, benché da più parti si ripeta che la normativa non prevede alcuna forma di imposizione coattiva dei modelli organizzativi è evidente che il legislatore, col sistema esaminato, dà una decisa sterzata verso questa forma di autocontrollo dell’ente e verso una progressiva internalizzazione delle proprie inefficienze organizzative e di controllo, visto che l’adozione di un idoneo modello organizzativo rappresenta l’unica esimente di cui dispone la persona giuridica.

In caso contrario, infatti, l’affermazione di responsabilità comporta l’applicazione a carico dell’ente di sanzioni che possono anche metterne a rischio la solidità economica ed, in casi limite, lo stesso futuro aziendale: alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 10, applicata per quote il cui numero, tra un minimo ed un massimo, viene determinato dal giudice tenendo conto della gravità del grado di responsabilità dell’ente ed il cui valore, sempre entro una forbice definita, è fissato invece sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali, possono aggiungersi sanzioni accessorie come la confisca, la pubblicazione delle sentenza fino ad arrivare, nei casi più gravi, alle sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2, come il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, l’interdizione dall’esercizio dell’attività, la sospensione o la revoca delle autorizzazioni o licenze o concessioni funzionali all’esercizio dell’attività, l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi, il divieto di pubblicizzare beni o servizi.Senza trascurare la possibile applicazione delle misure cautelari di cui all’art. 45, che il pubblico ministero può richiedere quando sussistono gravi indizi della responsabilità dell'ente e vi sono fondati e specifici elementi che fanno ritenere concreto il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede. Tali misure possono consistere nell’applicazione di una delle sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, ed il giudice, che sulla richiesta provvede con ordinanza nella quale indica le modalità applicative, in luogo della misura cautelare interdittiva può anche nominare un commissario giudiziale a norma dell'art. 15 per un periodo pari alla durata della misura che sarebbe stata applicata.

È evidente, quindi, che si tratta di misure che, a seconda della gravità dell’illecito presupposto, rischiano di mettere in ginocchio l’ente che incorre in questa forma di responsabilità per omissione organizzativa e gestionale, con inevitabili ripercussioni sul piano della tutela degli stessi posti di lavoro.

Ciò posto, tornando al caso giudiziario da cui si son prese le mosse è interessante indagare se, accanto alle ipotesi di reato (di cui finora si è avuto notizia) che la Procura di Taranto profila a carico dei vertici dello stabilimento ILVA sia ipotizzabile o meno una contestazione di questa nuova forma di responsabilità dell’ente; il tutto anche alla luce del fatto che al momento, a livello nazionale, non si ha ancora conoscenza di incriminazioni di un ente per la commissione di uno dei reati ambientali di nuovissimo ingresso nel catalogo dei reati presupposto mediante l’art. 2 del D.lgs. 7 luglio 2011, n. 121.

È interessante, insomma, tentare di capire se, oltre all’affermazione della penale responsabilità delle persone fisiche oggi indagate, che dirigono lo stabilimento, con prevedibili ricadute in ordine alle richieste risarcitorie che saranno verosimilmente avanzate dalle persone offese ammesse a costituirsi parte civile, possa profilarsi anche un’imputazione della persona giuridica, con evidenti possibili benefici sul piano della tutela della salute e dell’ambiente e contrapposti rischi sul piano occupazionale.

Non è difficile, infatti, immaginare che l’applicazione in via cautelare o con sentenza di condanna, o anche il solo rischio di sanzioni pecuniarie di rilevante entità e, più ancora, di sanzioni interdittive gravi (come l’interdizione dall’esercizio dell’attività prevista per lo sversamento doloso di materie inquinanti) sarebbero da un lato strumenti davvero efficaci nella rimozione delle fonti inquinanti, in grado cioè di indurre lo stabilimento tarantino ad adottare protocolli organizzativi seri e trasparenti nella prevenzione dei reati contro la salute e la sicurezza dei lavoratori e della popolazione nonché dei reati ambientali, ma dall’altro lato rischierebbero di decretare misure punitive tali da segnare anche uno stop dell’azienda, con evidenti ricadute occupazionali.Partendo dall’ambito soggettivo di applicazione del D.lgs. 231/2001 non sussistono dubbi sulla sua applicabilità allo stabilimento incriminato. Ai sensi dell’art. 3, infatti, la normativa riguarda gli «enti forniti di personalità giuridica e le società e associazioni anche prive di personalità giuridica». Non si applica, invece, «allo Stato, agli altri enti pubblici non economici, nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale». Del pari, nessun dubbio pare potersi avanzare sul requisito della commissione del reato presupposto, visto che nelle fattispecie si profila la contestazione agli autori materiali tanto degli illeciti di cui al richiamato art. 25-septies in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro (introdotti nel catalogo dall’art. 300, “Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”, del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81) quanto almeno uno dei reati ambientali di cui all’art. art. 25-undecies (introdotto dall’art. 2 del D.lgs. 7 luglio 2011, n. 121 recante “Attuazione della direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell’ambiente, nonché della direttiva 2009/123/CE che modifica la direttiva 2005/35/CE relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni”), in particolare il superamento dei valori limite di qualità dell’aria previsti dalla vigente normativa (art. 279, comma 5, D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), così volendo trascurare altre ipotesi di reato in materia di bonifica di siti inquinati e di inquinamento idrico.Allo stesso tempo, la responsabilità dell’ente verrebbe connessa alla posizione funzionale rivestita dagli autori di tali reati che, nel nostro caso, sarebbero persone in posizione apicale in quanto rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o gestione dell’ente. Per costoro, inoltre, che addirittura rappresentano la proprietà dello stabilimento, sarebbe agevole dimostrare l’aver agito nell’interesse o a vantaggio della propria azienda.

Perciò, dalle condizioni esaminate si evince che ci troveremmo a gravitare nell’orbita della responsabilità di cui all’art. 7 del citato decreto, secondo cui l’unico strumento utile per andare esente consisterebbe nella prova, da parte dell’ILVA, di aver adottato ed efficacemente attuato un modello organizzativo e gestionale di prevenzione dei reati in oggetto.

Ma che tipo di protocollo, in concreto, lo stabilimento dovrebbe provare di aver adottato per beneficiare di questa esimente?

La risposta non è semplice, in quanto un valido modello organizzativo dovrebbe essere un documento contenente un insieme di regole di condotta, pianificate secondo un sistema gerarchico di fonti che contempli norme primarie di settore (come l’art. 30 del D.lgs. 81/2008), norme tecniche (come le linee guida Uni-Inail o British Standard OHSAS sempre in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro) e codici di autodisciplina e linee guida emesse dalla associazioni di categoria.Per cominciare, un idoneo modello organizzativo non può senz’altro prescindere da un contenuto minimo di regole volte quantomeno ad individuare la attività nelle quali possono essere commessi dei reati, prevedere protocolli per la prevenzione, definire modalità di gestione delle risorse finanziarie alla stessa finalizzate, prevedere un efficace trasferimento delle informazioni all’organismo autonomo di vigilanza, introdurre un sistema disciplinare per sanzionare il mancato rispetto delle misure.

Ciò posto, può comunque affermarsi che l’onere probatorio a carico dei vertici ILVA sarebbe tutto sommato difficile, ma non ancora diabolico per la commissione dei delitti di cui all’art. 25-septies in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Al riguardo, infatti, è stato lo stesso legislatore del D.lgs. 81/2008 che, dopo aver preso atto dell’insufficienza della definizione di modello organizzativo fornita dall’art. 6  D.lgs. 231/01, ha facilitato il compito di imprenditori ed addetti ai lavori indicando dettagliatamente, all’art. 30, comma 5, il contenuto minimo dei modelli organizzativi nelle specifica materia.

In particolare, la norma richiama il rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi ad attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici, attività di valutazione dei rischi e predisposizione di misure di prevenzione e protezione, organizzazione di primo soccorso, riunione periodiche di sicurezza, consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, sorveglianza sanitaria, informazione e formazione dei lavoratori.

Viene, inoltre, creata una commissione consultiva permanente presso il Ministero del Lavoro per l’elaborazione delle procedure semplificate per l’adozione ed attuazione dei modelli organizzativi, ma soprattutto, per la prima volta, viene sancita una presunzione di idoneità dei modelli organizzativi di cui al D.lgs. 231/2001 a condizione che siano conformi alle linee guida UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001-2007.

Ben più pernicioso, se non diabolico, sarebbe invece l’onere probatorio che i vertici dell’ILVA dovrebbero assolvere in ordine ai modelli organizzativi in materia ambientale. Ciò in quanto, a differenza di quanto appena esposto, il D.lgs. 121/2011 che introduce nel catalogo gli ecoreati, omette qualsiasi riferimento alle certificazioni volontarie ambientali ISO 14001-2004 ed al Regolamento comunitario 2009/1121/CE EMAS, che rappresenta un sistema di ecogestione e certificazione a cui le imprese con sede in territorio europeo possono volontariamente aderire.

Manca, insomma, qualsiasi parallelo con la disciplina del lavoro in grado di sancire una presunzione di conformità dei modelli organizzativi che l’ILVA dovesse pur aver adottato. Pertanto, in assenza di riferimenti, al giudice non resterebbe altro parametro che non lo stesso dato di realtà, rappresentato dall’eventuale integrazione dell’illecito ambientale e della conseguente affermazione della penale responsabilità.

Come a dire, salvo sorprese, la condanna degli imprenditori porterebbe con sé l’inevitabile affermazione della responsabilità amministrativa dell’ente, con inevitabili difficoltà del giudice nella gestione di quella “coperta corta” che si rivelerebbe l’operazione di dosimetria della pena, tirata in direzioni opposte dall’esigenza di contemperare la salute e l’ambiente da un lato ed i posti di lavoro dall’altro.  

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info@codexa.it (di Mario Tagliaferro) Diritto penale del lavoro Tue, 03 Jul 2012 08:37:51 +0000
Riconoscimento dei benefici previdenziali per i lavoratori esposti all'amianto http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/riconoscimento-dei-benefici-previdenziali-per-i-lavoratori-esposti-allamianto.html http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/riconoscimento-dei-benefici-previdenziali-per-i-lavoratori-esposti-allamianto.html

RICONOSCIMENTO DEI BENEFICI PREVIDENZIALI

PER I LAVORATORI ESPOSTI ALL’AMIANTO

di Tiziana Valeriana del Virgilio

articolo già pubblicato sulla rivista scientifica telematica www.dirittodeilavori.it, anno VI n. 2, giugno 2012, edita da Cacucci, Bari 

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info@codexa.it (di Tiziana V. de Virgilio) Rassegna giurisprudenziale Wed, 27 Jun 2012 17:38:21 +0000
Delega di funzioni http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/delega-di-funzioni.html http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/delega-di-funzioni.html

DELEGA DI FUNZIONI

Limiti al dovere di vigilanza del datore di lavoro

di Clarenza Binetti

articolo già pubblicato sulla rivista giuridca telematica www.dirittodeilavori.it, anno VI n. 2, giugno 2012, edita da Cacucci, Bari

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info@codexa.it (di Clareza Binetti) Rassegna giurisprudenziale Wed, 27 Jun 2012 15:36:33 +0000
Nuove tutele per le vittime dell'amianto http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/nuove-tutele-per-le-vittime-dellamianto.html http://www.csddl.it/csddl/rassegna-giurisprudenziale/nuove-tutele-per-le-vittime-dellamianto.html

NUOVE TUTELE PER LE VITTIME DELL’AMIANTO

di Ezio Bonanni

 

articolo già pubblicato sulla rivista giuridica telematica www.dirittodeilavori.it. anno VI n. 2, giugno 2012, edita da Cacucci, Bari

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info@codexa.it (di Ezio Bonanni) Rassegna giurisprudenziale Wed, 27 Jun 2012 09:54:55 +0000
LA STORIA DELL’AMIANTO NEL MONDO DEL LAVORO - Rischi, danni, tutele http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/medical-and-forensic-implications-of-asbestos-in-italian-law.html http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/medical-and-forensic-implications-of-asbestos-in-italian-law.html MEDICAL AND FORENSIC IMPLICATIONS OF ASBESTOS IN ITALIAN LAW 

(versione italiana)

di Ezio Bonanni* 

The Law No. 80 of March 17th 1898 (Gazzetta Official No. 175 of March 31th 1898) and art. 7 of R.G. (Gazzetta Official No. 148 of June 26th 1899), have stated the obligation of personal protection equipment for protection from dust. The Court of Turin (Proc. No. 1197/1906), rejected the claim for damages of Bender and Martiny and The British Asbestos Company Limited against Avv. Carlo Pitch and manager Arturo Mariani, editors of "The progress of the Canavese and Valli di Stura", published in Ciriè, because in articles there was nothing false in that the asbestos is "among the dangerous industries [... ] particles [...] damages the respiratory apparatus, [...]

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info@codexa.it (di Ezio Bonanni) Diritto penale del lavoro Fri, 27 Jan 2012 10:00:37 +0000
Implicazioni medico-forensi dell'asbestosi nella giurisprudenza italiana http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/implicazioni-medifo-forensi-dellasbestosi-nella-giurisprudenza-italiana.html http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/implicazioni-medifo-forensi-dellasbestosi-nella-giurisprudenza-italiana.html IMPLICAZIONI MEDICO-FORENSI DELL’ASBESTOSI NELLA GIURISPRUDENZA ITALIANA 

di Ezio Bonanni* 

La legge n. 80 del 17.03.1898 (G.U. n. 175 del 31.03.1898) e l’art. 7 del R.G. (G.U. n. 148 del 26.06.1899), hanno sancito l’obbligo dei mezzi individuali di protezione per la difesa dalle polveri. Il Tribunale di Torino (proc. n. 1197/1906), rigettava la domanda risarcitoria di Bender e Martiny e The British Asbestos Company Limited nei confronti dell’Avv. Carlo Pich e del gerente Arturo Mariani, redattori de “Il progresso del Canavese e delle Valli di Stura”, edito a Ciriè, poiché negli articoli non c’era nulla di falso in quanto quella dell’amianto è “fra le industrie pericolose […] leparticelle […] vengono a ledere le vie degli apparati respiratorii, […] fino al polmone, predisponendole allo sviluppo della tubercolosi, facilitandone la diffusione aumentandone la gravità”. La decisione venne confermata con la sentenza n. 334 del 28.05.1907 della Corte di Appello di Torino, poiché “la lavorazione di qualsiasi materia che sprigioni delle polveri [...] aspirate dall'operaio, sia dannosa alla salute, potendo produrre con facilità dei malanni, è cognizione pratica a tutti comune, come è cognizione facilmente apprezzabile da ogni persona dotata di elementare cultura, che l'aspirazione del pulviscolo di materie minerali silicee come quelle dell'amianto [...] può essere maggiormente nociva, in quanto le microscopiche molecole volatilizzate siano aghiformi od almeno filiformi ma di certa durezza e così pungenti e meglio proclivi a produrre delle lesioni ed alterazioni sulle delicatissime membrane mucose dell'apparato respiratorio”. Il regio decreto 442 del 14.06.1909 includeva la filatura e tessitura dell'amianto tra i lavori insalubri o pericolosi. Benedetto Croce, in data 11.06.22 presentò al Senato del Regno la proposta di legge n. 778 “per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico, che “civiltà moderna si sentì il bisogno di difenderle, per il bene di tutti … che danno all’uomo entusiasmi spirituali così puri e sono in realtà ispiratrici di opere eccelse”. Il Regolamento generale per l’igiene del lavoro (R.D. n.530 del 14/4/1927, Approvazione del regolamento generale per l’igiene del lavoro, G.U. 25/4/1927 n. 95) ha dettato norme di prevenzione e protezione e per le polveri all’art. 17 per disporne l’aspirazione e limitarne la diffusione nell’ambiente e la protezione degli operai anche con dispositivi individuali. La convenzione n. 18 del 19.05.1925, ratificata con R.d.l. 1792 del 04.12.33 (G.U. 10.01.1934) estendeva l’assicurazione sociale anche alle malattie professionali, che così venivano indennizzate, e la convenzione n. 19 del 19.05.25, ratificata con L. n. 2795 del 29/12/1927 (G.U. n. 38 del 15/5/1928), ne sanciva il riconoscimento anche ai lavoratori stranieri, unitamente agli infortuni sul lavoro, coerentemente alla raccomandazione n. 24 del 19.05.1925 emanata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, avente ad oggetto l’indennizzo della malattie professionali (L’assurancemaladie - BIT, L’assurance-maladie, n. 4, Genève 1925). “E’ … certo ed incontestabile che l’integrità personale dell’uomo e la sua salute (sommi beni che trascendono dalla sfera dell’individuo per assurgere ad importanza sociale, come necessaria premessa della conservazione e del miglioramento della specie) sono protette non soltanto dal contratto, ma altresì da numerose leggi di pulizia sanitaria e perfino dal Codice Penale” (Corte di Cassazione Civile, Sentenza n. 2107 del 28.04.1936, pubblicata il 17.06.1936), e “le forme assicurative predisposte per garantire gli operai contro talune malattie professionali tassativamente elencate, non dispensano i datori di lavoro dall’obbligo contrattuale di usare la dovuta diligenza nella propria azienda, per evitare danni ai lavoratori (anche se compresi nella previdenza assicurativa), adottando tutti i mezzi protettivi prescritti o suggeriti dalla tecnica e dalla scienza. Il dovere di prevenzione, che l’art. 17 r.d. 14 aprile 1927, n. 530, sull’igiene del lavoro, impone per il lavoro che si svolga in ‘locali chiusi’ va osservato in tutti quei casi in cui il luogo di lavoro, pur non essendo completamente chiuso, non sia tale da permettere comodamente e senza pericolo la uscita dei vapori e di qualsiasi materia nociva”: la colpa risiede nell’assenza di “aspiratori” in “locali non perfettamente chiusi” e di “maschere per i lavoratori” e nella negligenza e imprudenza rispetto “allarme dato dagli scienziati” sulla pericolosità delle polveri (Cass. Sent. n. 682 del 20.01.1941, pubblicata il 10.03.1941, Soc. acciaierie elettr. c. Panceri); poiché per le “malattie professionali non garantite da assicurazione obbligatoria il datore di lavoro non può esimersi da responsabilità se l’evento dannoso si sia prodotto per sua colpa” (Corte di Cassazione, Sentenza 17.01.1941, Soc. off. elettroferro Tallero c. Massara), né può costituire un esonero il fatto che “gli operai non avevano mai denunziato disturbi […] perché la silicosi insidia insensibilmente l’organismo del lavoratore fino alle manifestazioni gravi che causano l’incapacità al lavoro sicché il lavoratore non è in grado di accorgersene in precedenza”, poiché l’art. 2 del r.d. 530 del 1927, “prescrive al datore di lavoro di avvertire preventivamente il lavoratore del pericolo, di indicargli i mezzi di prevenzione adatti” e l’art. 17 “prescrive l’aspirazione della polvere immediatamente vicino al luogo ove viene prodotta” (Corte di Cassazione, II^ Sezione Civile, Sentenza n. 686 del 17.01.1941), cui corrisponde la norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c. (r.d. 16.03.1942, n. 262), con la quale si impone all’imprenditore di “adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Il 25.01.1943 il Ministro delle Corporazioni presentava presso la Camera il disegno di legge n. 2262 per l’“estensione dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali alla silicosi ed asbestosi”, “scopo 1. proteggere … in sede di prevenzione tecnica … i lavoratori, tracciando e imponendo agli imprenditori un piano razionale e completo di prevenzione; 2. tutelare la salute dei lavoratori entrando con decisione nel settore delle malattie polmonari”, con l’indennizzo per i lavoratori, che fu approvato con la l. 455 del 12.04.1943. La Costituzione della Repubblica Italiana del 01.01.1948, “tutela la salute comefondamentale diritto dell’individuo, interesse della collettività” (art. 32). La raccomandazione ILO n. 97 del 04.06.1953, e le norme costituzionali sono contraddette dalla circolare n. 91 del 14.09.1961 il Ministero dell’Interno, Direzione Generale, Servizi Antincendi, che consiglia l’utilizzo di intonaco di amianto, per proteggere contro il fuoco i fabbricati a struttura in acciaio destinati ad uso civile. L’amianto, fino ad allora utilizzato in maniera marginale e limitata, divenne paradossalmente di uso comune fino ad essere impiegato in oltre 3000 applicazioni, nei siti lavorativi, e in edilizia, senza alcun limite di soglia. Anche se Selikoff aveva sottolineato la sinergia moltiplicativa tra fumo e amianto già dal 1978, in Italia né i datori di lavoro né il Monopolio di Stato in ordine al tabacco hanno messo in guardia contro di essa le persone che sono o sono state esposte all’amianto. La Direttiva 477/83/CEE, “sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con l’esposizione all’amianto durante il lavoro”, non fu recepita, e la Repubblica Italiana venne condannata dalla Corte di Giustizia con la decisione del 13.12.90 (in seguito alla procedura di infrazione n. 240/89 promossa dalla Commissione Europea). Soltanto con le norme di cui agli artt.24 e 31 del D.Lgs. 277/1991 e con la l. 257/92 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto) ci fu una effettiva svolta legislativa, pur nella loro sostanziale e perdurante disapplicazione, tanto che il Pretore di Torino con Sentenza del 05.05.1995 riconosceva il nesso causale tra la violazione delle norme di prevenzione e il mesotelioma pleurico insorto in seguito all’inalazione di fibre di amianto e successivamente sempre il Pretore di Torino, con la sentenza 3308/98 (Giudice Dott. Vincenzo Ciocchetti), nell’accogliere la domanda di accredito contributivo in favore di un lavoratore esposto all’amianto al quale l’ente previdenziale aveva rigettato la richiesta, affermava: “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? Nullo …” (Dante, Purgatorio, XVI, 96-98), richiamando altresì il gran numero di patologie asbesto correlate, per le quali ogni anno perdono la vita soltanto in Italia non meno di 5.000 persone. Il P.M. presso il Tribunale Penale di Torino nel processo Eternit ha chiesto una pena di 20 anni di reclusione a carico degli amministratori della Eternit, e il Tribunale Penale di Paola ha autorizzato la citazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Regione Calabria, della ASL di Cosenza e del Comune di Praia a Mare, quali responsabili civili, insieme con gli imputati, per i danni sofferti dalle vittime, molte delle quali hanno perso la vita a causa dell’inalazione di fibre di amianto. La tabella di cui al DM 09.04.2008, con successivi aggiornamenti, contempla come malattie asbesto correlate con presunzione di origine professionale: a) le placche e ispessimenti pleurici con o senza atelettasia rotonda; b) il mesotelioma pleurico; c) il mesotelioma pericardico; d) il mesotelioma peritoneale; e) il mesotelioma della tunica vaginale e del testicolo; f) il carcinoma polmonare; g) l’asbestosi; h) la fibrosi polmonare, “associate ad altre forme morbose dell'apparato respiratorio e cardiocircolatorio” (art. 4, l. 780/75). Per le altre patologie l’onere della prova è a carico del lavoratore: in sede amministrativa e successivamente giudiziaria sono stati esibiti gli atti relativi agli studi di G. Ugazio, in Italia, e di Y. Omura, in USA, che hanno determinato in alcuni casi il pacifico riconoscimento in via amministrativa della natura professionale anche delle patologie asbesto correlate non contemplate nelle tabelle, in altri una svolta positiva del processo, con condanna a carico di enti previdenziali e datori di lavoro (come per il caso dell’adenocarcinoma e di altre patologie, da Y. Omura [1] confermato da Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale della Basilicata, Sentenza del 09.05.2005; Corte di Cassazione, IV^ Sez. Penale, 24.02.2011 n. 7142), oppure con un approfondimento istruttorio, come per i numerosi giudizi pendenti innanzi la Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per il Lazio, che sulla base del deposito delle pubblicazioni scientifiche, ha chiesto un approfondimento al Ministero della Salute della Repubblica Italiana il quale si dovrà pronunciare sulla loro validità scientifica. Sorprende che ancora oggi in Italia alcuni scienziati, e financo alcuni Magistrati neghino il nesso causale tra esposizione all’amianto e alcune patologie tumorali, anche di quelle contemplate nelle tabelle delle malattie professionali, e nonostante le acquisizioni unanimi della scienza medica, che perciò stesso deve assolvere ad un ruolo di comunicazione attraverso la divulgazione, e non è senza valore l’intervento del Sommo Pontefice Benedetto XVI°, il quale all’udienza generale del 27.04.2011, ha esortato l’Osservatorio Nazionale Amianto e l’Associazione Vittime Amianto Nazionale Italiana “a proseguire la loro importante attività a difesa dell’ambiente e della salute pubblica”.

Bibliografia:

[1] G. Ugazio, sito internet: www.grippa.org, Monograph “Asbestos”.

[2] Y. Omura, Acupunct. & Electro-Therapeutics Res. Int. J. 31, 61-125, 2006.



* Avvocato patrocinante in Cassazione (Via Crescenzio n. 2 – 00193 Roma – Tel. 0773.663593; Fax 0773.470660; e-mail: avvbonanni@libero.it; www.eziobonanni.it).
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info@codexa.it (di Ezio Bonanni) Diritto penale del lavoro Fri, 27 Jan 2012 09:48:45 +0000
Le radici dell’art. 2087 c.c. e degli artt. 32 e 41, comma 2 della Costituzione e la sostanziale disapplicazione in tema di amianto http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/le-radici-dell-art.-2087-c.c.-e-degli-artt.-32-e-41-comma-2-della-costituzione-e-la-sostanziale-disapplicazione-in-tema-di-amianto.html http://www.csddl.it/csddl/diritto-penale-del-lavoro/le-radici-dell-art.-2087-c.c.-e-degli-artt.-32-e-41-comma-2-della-costituzione-e-la-sostanziale-disapplicazione-in-tema-di-amianto.html Le radici dell’art. 2087 c.c. e degli artt. 32 e 41, comma 2 della Costituzione e la sostanziale disapplicazione in tema di amianto  

di Ezio Bonanni

(in Rivista Giuridica Telematica, anno V. n. 3, dicembre 2011, edita da cacucci Editore, Bari)

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info@codexa.it (di Ezio Bonanni) Diritto penale del lavoro Wed, 14 Dec 2011 23:00:00 +0000