- Premessa
Il comparto agricolo è sempre stato ritenuto uno dei settori dove, per una serie di concause, si sviluppa maggiormente lavoro irregolare caratterizzato spesso dal proliferarsi del turpe fenomeno del caporalato che fino ad oggi non si è riusciti a debellare definitivamente. Oltretutto l’incidenza della presenza di manodopera straniera abbinata ad una disciplina da rivedere per accedere all’indennità di disoccupazione agricola alimentano in modo chiaro l’impiego di lavoratori irregolari nel comparto agricolo.
- Le cause del lavoro agricolo irregolare
Si definisce lavoro irregolare svolto nel comparto agricolo quel rapporto lavorativo, che non rispetta né parzialmente, né totalmente, il complesso normativo che disciplina e regola il lavoro nel Paese risultando privo dell’opportuna tutela che, invece, viene concessa al lavoro agricolo regolare. L’accezione “irregolare” rappresenta una definizione abbastanza comune, usata anche in altri settori, per indicare l’assenza di registrazioni legali, come quella ufficiale, dei pagamenti delle imposte e dei contributi necessari per la previdenza sociale. La peculiarità di questa accezione trova la sua intrinseca natura proprio nella forma non dichiarata alle pubbliche autorità[1], e di conseguenza ignota al complesso amministrativo che provoca un perfetto accostamento tra mancanza di dichiarazione e mancanza di tutela a sostegno del lavoratore. Il fenomeno del lavoro agricolo irregolare continua a costituire un punto cruciale che interessa il comparto giuridico quanto quello economico-sociale, e che, proprio per ciò, deve essere affrontato considerando le due principali cause che fanno da sfondo a tale tematica. La prima causa può essere imputata ad un repentino mutamento evolutivo del mercato del lavoro, caratterizzato, in passato, da evidenti connotati pubblicisti, soprattutto per quello che riguardava la genesi delle condizioni lavorative, e, in seguito, da una forte propensione alla flessibilità lavorativa, all’atipicità dei contratti e alla liberalizzazione dello stesso mercato. In questo modo si è assottigliata ancor più la linea di confine tra lavoro regolare e irregolare[2]. La seconda causa è imputabile ai nefasti effetti della crisi economica che hanno portato verso scelte organizzative tendenti alla riduzione dei costi, delle tasse e del lavoro, radicando ulteriormente il problema.
Questo intreccio, inevitabilmente, ha portato ad uno scompenso di natura socio-economica, permettendo ai soggetti del mercato del lavoro agricolo di attuare alcune scelte, da un lato dettate dal profitto, dall’altro dettate dalla disperazione, creando delle tipologie abbastanza differenti.
Purtroppo in Italia, ma purtroppo anche nel resto d’Europa, il costo del lavoro nel suo complesso risulta decisamente alto, per cui i datori di lavoro tendono a ridurre al minimo, tali spese, visto che la mancata dichiarazione del lavoratore rappresenta una tentazione appetibile sul piano economico.
Il lavoratore, dal canto suo, accetta, senza resistenza alcuna, ogni opportunità lavorativa, seppure mal retribuita e a condizioni precarie, perché spinto dalla necessità di guadagnare quel che basta per la sussistenza di sé e di un’eventuale famiglia. Elementi come la natura stagionale delle mansioni lavorative, l’ampia presenza della manodopera a basso costo causata soprattutto dal continuo flusso di immigrazione clandestina, e l’accesso facilitato ad ammortizzatori sociali, come la disoccupazione agricola[3]spettante dopo cinquantuno giorni lavorativi, validamente certificati, sono le cause che favoriscono il lavoro irregolare nel settore agricolo.
Inoltre da una analisi del fenomeno nel comparto agricolo si evince facilmente come le situazioni appena enunciate siano divenute cause che inevitabilmente hanno portato il datore di lavoro agricolo a far ricorso all’irregolarità, radicandosi nella trama settoriale del comparto agricolo[4].
- L’origine e gli effetti del lavoro agricolo irregolare
Il lavoro irregolare nell’ambito del comparto agricolo ha, alle sue spalle, una storia davvero lunga, radicata nelle differenti culture locali d’Italia. I mezzi d’informazione, difatti, hanno iniziato a trattare tale questione durante gli anni settanta, ma con scarso interesse, per poi focalizzare nuovamente l’attenzione verso i primi anni del duemila, in seguito ad alcuni gravi fatti di cronaca. Tutto ciò ha avuto come conseguenza una mobilitazione, seppur in ritardo, di sindacati e movimenti a tutela delle fasce più deboli. Occorre, però, fare una piccola premessa storica che possa chiarire, il panorama che ha fatto da sfondo, fin dai suoi primordi, al movimento del caporalato. Stando a diversi resoconti storici, questo sistema di reclutamento della manodopera si è sviluppato, più o meno allo stesso modo, in gran parte del territorio italiano nel momento in cui si è avuto un graduale passaggio dall’agricoltura di sussistenza ad una di proporzioni maggiori, dettata da esigenze del mercato agricolo pretenziose.
A partire dal seicento-settecento vi furono le prime migrazioni stagionali interne al territorio italiano, dove erano presenti figure simili a quella dell’attuale caporale che avevano come compito quello di convogliare la forza lavoro per poi metterla a disposizione dei latifondisti. Nella prima metà dell’ottocento, con una progressiva crescita dei centri agricoli, si ebbe una rivoluzione socio-economica che diede vita all’agricoltura dei capitali. Fu in questo periodo che si svilupparono figure che acquisirono un ruolo quasi simile a quello dell’attuale caporale, differente dall’antico fattore, chiamato spesso “massaro”[5] a cui venivano affidati, dai proprietari terrieri, compiti di amministrazione dei diversi lavori, affinché lo svolgimento degli stessi venisse correttamente svolto.
Spostandoci nel tempo, a partire dalla fine degli anni sessanta, iniziò a prendere forma il percorso riguardante l’attuale caporale. Il caporale nasce come un ex bracciante con delle capacità superiori nella norma, dotato di uno spirito di intraprendenza abbastanza deciso, che solitamente ha avuto modo di lavorare in contesti extranazionali, acquisendo una maggiore esperienza sul campo. Dapprima, come ex braccianti, i caporali, coi soldi risparmiati, acquistavano mezzi di trasporto capienti, atti al trasporto sul luogo di lavoro, e offrivano passaggi agli altri lavoratori in cambio di una modesta somma di denaro, un investimento in una forma sempre più consolidata. La messa a profitto del mezzo di trasporto fu la prima tappa che segnò l’avvento dell’odierno caporalato. Verso i primi anni ottanta soggetti terzi al mondo agricolo, spesso legati alla criminalità locale, iniziarono ad intravedere la possibilità di trarre profitti dall’attività di trasporto e, in seguito, da quella di intermediazione. Inizia, in questo periodo, l’era del caporalato duro, ove si ricorre alla violenza e si stipano braccianti in automezzi come animali, in una precaria condizione igienico-sanitaria. Invece l’evoluzione, in ogni caso, ha continuato il suo progresso, arrivando a creare una sorta di “omologazione” apparentemente regolare, in cui i caporali, mediante l’utilizzo di veri e propri autobus, si impegnano a trasportare i braccianti per conto di “cooperative” agricole di mera facciata che sostengono di aver regolarmente assunto i lavoratori. Questa nuova forma di caporalato è sospinta da una tendenza all’elusione delle normative, che permette, dunque, di poter facilmente aggirare i controlli delle autorità. In modo particolare l’assenza di norme riguardanti la sicurezza sul posto di lavoro nei campi sembra essere totalmente assente.
Nel mondo del lavoro agricolo ogni soggetto dovrebbe lavorare con le adeguate protezioni, ovviamente standardizzate per il tipo di mansione svolta, invece spesso essendoci una totale illegalità, l’uso delle protezioni è assente, e di conseguenza abbiamo la diffusione della malasanità che non si ferma soltanto sul posto di lavoro, ma continua il suo tragitto anche nei luoghi in cui i lavoratori, in questo caso quasi sempre extracomunitari, soggiornano. La figura di riferimento principale, in questo caso, è quella del caporale, che rappresenta un elemento di intermediazione tra le imprese agricole e i lavoratori. Al caporale spetta il compito di organizzare una manovalanza qualificata, a seconda delle richieste dell’imprenditore agricolo, attraverso un sistema di reclutamento laddove lo stesso prende una percentuale sul salario dei braccianti. Alle prime luci dell’alba, i caporali si recano nei punti di “raccolta”, e caricano sui pulmini tutti i braccianti, trasportandoli direttamente sul luogo di lavoro, dove finiscono con occuparsi della stessa organizzazione direttiva e di controllo, stabilendo ritmi e orari lavorativi, spesso con l’uso dell’intimidazione e della violenza per ottenere efficienza ed efficacia in modo tempestivo[6].
Il caporale, a sua volta, lavora per un’impresa utilizzatrice di natura fittizia, che solitamente non è collegata all’imprenditore agricolo per evitare problemi di natura legale, e che si occupa della sua retribuzione. I braccianti, invece, vengono direttamente retribuiti dal caporale che, attraverso l’uso di tangenti, specula sull’ammontare totale. Proprio per questo, dunque, dobbiamo pensare all’intermediazione tra braccianti e imprenditori come a un qualcosa di dinamico ed eterogeneo, che assume caratteri e connotati differenti, mutevoli nel tempo e nello spazio, e che per questo necessita di approfonditi interventi “chirurgici”, atti a debellare, modo definito, l’illegalità del mondo agricolo[7].
4. Indagine conoscitiva sul lavoro agricolo irregolare in Italia
Esaminando i dati resi noti negli ultimi anni dall’Istat, sul piano economico nazionale, il comparto agricolo risulta essere tra i settori in cui vi è il più alto tasso d’irregolarità nei rapporti di lavoro con un incremento della presenza nei campi, da parte dei lavoratori sfruttati, che, a quanto pare, ha raggiunto la cifra di 430.000, di cui 100.000 risultano essere stranieri. Stando inoltre ai dati che emergono dal focus Censis, reso noto durante l’assemblea della cooperazione agroalimentare e della pesca del 2019, in agricoltura la quota del sommerso ha raggiunto il 16,9% ed è cresciuta nel periodo tra il 2014-2017 di 0,5%.[8]
La criminalità organizzata, ovviamente, specula sullo sfruttamento della manodopera a basso costo che rappresenta una fonte di economia illegale che si aggira tra i 14 e i 17 miliardi. In modo particolare è stato quantificato un danno contributivo dovuto all’evasione pari a 420.000.000 di euro l’anno, a cui va aggiunta quella quota di reddito, pari al circa il 50% della retribuzione spettante, per contratto nazionale, al lavoratore, che viene prelevata dal caporale.
Questi dati emergono dalla ricerca condotta da Flai-CGIL[9] che ha interessato ben quattordici regioni, e sessantacinque province, col solo intento di individuare i flussi di manodopera stagionale e i focolai delle aree in cui lo sfruttamento del lavoro sembra essere più presente. Sono stati controllati oltre ottanta focolai di rischio, di cui trentasei caratterizzati da un tasso di sfruttamento della manodopera davvero alto, dal nord al sud, perché il caporalato risulta essere diffuso su tutto il territorio nazionale.
Oltre le regioni del sud Italia, ossia Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, v’è stato un boom del fenomeno al centro nord, con particolare riguardo per l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Lombardia, la Toscana, il Veneto e il Lazio.
I lavoratori agricoli, vittime del caporalato, percepiscono, approssimativamente, una somma di denaro che si aggira tra i venticinque e i trenta euro per un corrispettivo di dieci o dodici ore di lavoro, pari ad appena due euro per ogni ora trascorsa a lavorare. A tale paga, però, devono essere sottratte quelle che potremmo definire come le “tangenti” giornaliere che consistono in: cinque euro adoperate per il semplice trasporto sul luogo di lavoro, tre euro e cinquanta per il pasto, un euro e cinquanta per ogni bottiglia d’acqua consumata.
Pur essendo aumentate le ispezioni del 59% soltanto nel 2015, considerando i dati forniti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali riguardanti tutti gli interventi, attuati dalle autorità preposte alla vigilanza all’interno del comparto agricolo, risulta che sono state effettuate più di 8.700 ispezioni all’interno delle imprese agricole, e in questo modo s’è riscontrato un tasso d’irregolarità molto alto. Nonostante ciò il sommerso economico, così come il lavoro nero e irregolare, ha raggiunto livelli di criticità che potremmo definire endemica per quel che riguarda il contesto agricolo italiano. Le indagini[10] che sono state condotte in passato, precisamente nel 2012, danno un quadro abbastanza chiaro da cui emerge come il fenomeno del caporalato, non abbia avuto difficoltà ad aggirare le azioni apportate dagli interventi governativi posti in essere nel corso degli anni. Infatti i risultati ottenuti dalle autorità ispettive, durante i mesi di luglio e agosto del 2012, si è potuto stabilire che il 60,47 % delle imprese agricole versava in uno stato di totale irregolarità.
Sempre dallo stesso controllo, inoltre, è scaturita una situazione riguardante i lavoratori, con una percentuale del 17% di lavoratori irregolari, una del 13% per i lavoratori in nero, di cui il 31% fa totale riferimento all’impiego di manodopera straniera. L’agricoltura, quindi, risulta essere il settore in cui il mercato del lavoro è quasi totalmente nelle mani dei caporali, che col passaparola delle reti prettamente informali riescono ad acquisire manodopera a basso costo, considerando che questo comparto è, infatti, interessato da un’elevata diffusione di seconde attività che vengono prestate marginalmente, in modo occasionale e nella più totale irregolarità lavorativa. Già dal 2011, si aveva a che fare con una cifra che ruotava attorno ai 2.938.000 lavoratori irregolari che erano appunto impiegati nel comparto agricolo, tra cui vi erano circa 2.301.000 lavoratori dipendenti, e 640.000 lavoratori autonomi.
Da tali dati è emerso come il comparto agricolo risulti essere il settore con la maggiore incidenza di lavoratori irregolari, considerando che tale comparto fa denotare una crescita preoccupante del tasso di irregolarità tenendo in considerazione un’indagine conoscitiva arco temporale che parte dal 1999, pari al 22,6%, arrivando al 2016, con un tasso del 26,5%. L’irregolarità del rapporto di lavoro in agricoltura scaturisce dal carattere stagionale dell’attività agricola, che necessita dell’ampio utilizzo della manodopera giornaliera, essendo il prodotto agricolo tendenzialmente caratterizzato da una deperibilità abbastanza celere. Ovviamente l’irregolarità viene manifestata in due modi: attraverso il lavoro nero ed attraverso quello fittizio. Nel primo troviamo un lavoro che viene effettivamente svolto, ma che non viene dichiarato per aggirare il pagamento dei contributi sociali e per sfuggire al prelievo fiscale effettuato dallo Stato. Nel secondo, invece, troviamo un lavoro che non è mai stato effettivamente svolto, ma viene dichiarato per poter beneficiare, mediante iscrizione negli elenchi agricoli, dei sussidi e dei trasferimenti pubblici che possono essere di varia natura.
- La presenza dei lavoratori stranieri all’interno del mercato del lavoro agricolo italiano
Considerando l’indagine[11] effettuata dall’INEA sull’impiego dei lavoratori immigrati all’interno del comparto agricolo italiani, si è riusciti ad ottenere un quadro abbastanza chiaro con delle situazioni che risultano essere molto interessanti.
Riferendosi all’incremento del fenomeno migratorio che continua a perdurare dandoci una stima che già nel 2012, si aggirava attorno alle 36.000 unità con un numero complessivo di stranieri occupati all’interno delle zone rurali italiane che è pari a 269.000. Al continuo incremento finiscono col contribuire i lavoratori extracomunitari, 143.620 in tutta la loro totalità (quindi con un incremento del 13%, considerando un prospetto del 2011) e i lavoratori comunitari, che invece hanno un incremento pari al 18%. Cercando di interpretare tale fenomeno con circoscrizioni territoriali, emerge che nel nord Italia vi è stata una vera e propria concentrazione di stranieri[12], con una totalità di 110.000 persone, seguita dal sud Italia che conta la presenza di 85.000 lavoratori stranieri. Per quello che concerne il centro Italia e le isole, invece, abbiamo dei risultati decisamente più delimitati, dove troviamo 42.000 e 29.000 lavoratori, con la Sardegna che ha un suo bilancio in attivo per il minor numero di lavoratori stranieri, e la Sicilia, invece, che vede un incremento spropositato di 20.000 stranieri rispetto al passato. Il ricorso ai lavoratori stranieri ha una sua relazione con le scelte degli imprenditori agricoli italiani, perché, visto che tale situazione continua a perdurare nel tempo, si può asserire che l’aumento della produzione agricola intensiva, affinché si possano rispettare i termini del mercato ortofrutticolo, porti ad una necessità di manodopera economica in quantità superiori.
In questo modo, dunque, si è avuta una radicale trasformazione delle aziende agricole italiane che, in passato, avevano sempre fatto affidamento sulla manodopera di tipo familiare, mediante le collaborazioni occasionali o familiari, e che adesso iniziano ad investire su quella non familiare, con particolare tendenza al sud e al nord Italia, fatta eccezione per la Sardegna, ove ancora è dominante la presenza di manodopera familiare caratterizzata dall’impiego di lavoratori stranieri. Per tutti i lavoratori provenienti dai Paesi comunitari, in sostanza, può dirsi che l’aumento verificatosi è strettamente legato sia alle relazioni consolidatesi, col passar del tempo, tra i sistemi datoriali e la manodopera, con un’impressionante facilità di mobilitazione delle persone che avviene grazie alla totale mancanza delle barriere nell’Unione Europea.
I lavorati extracomunitari, d’altronde, sono praticamente occupati nelle coltivazioni arboree e nella filiera della zootecnia, con un ridotto utilizzo della loro manodopera nelle colture industriali e nel florovivaismo, anche se risulta essere in crescita il numero dei lavoratori extracomunitari coinvolti sia all’interno delle aziende agrituristiche che nel processo di trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli. Invece i lavoratori comunitari sono impiegati per lo più nelle attività da ricollegare alle colture arboree, in particolar modo in Trentino e in Puglia, affinché si possa effettuare la raccolta dei fruttiferi e dell’uva da tavola. La stagionalità dei rapporti di lavoro, come sempre, viene confermata, con una propensione all’aumento nelle regioni meridionali e nelle isole italiane. Per quel che riguarda l’aspetto contrattuale, per il 71,8% dei casi presi in esame, si hanno dei rapporti di lavoro regolari, però c’è da dire che sono molto presenti le situazioni in cui vi è la regolarità meramente parziale, in cui assistiamo a delle dichiarazioni nettamente inferiori di tutte le giornate di lavoro effettuate, oppure di ore di lavoro che sono state fatte svolgere in più, a discapito di quelle previste dal contratto di lavoro. La maggior parte della legalità caratterizzante i rapporti di lavoro è concentrata nel centro-nord, ricordando di segnalare la Calabria, in passato caratterizzata da stime di irregolarità del tutto vicine al 90%, che in seguito ha potuto intraprendere un cambiamento positivo di tutta la situazione, con fenomeni di irregolarità lavorativa che non hanno superato la soglia del 50%. Per quello che concerne l’aspetto retributivo, abbiamo una situazione, su tutto il territorio nazionale, che risulta essere davvero frammentata, visto che in regioni come la Puglia e la Calabria la maggior parte di tutti i lavoratori extracomunitari finiscono col ricevere un salario nettamente inferiore a quello che, di norma, dovrebbe spettare. Nonostante i lavoratori comunitari abbiano delle caratteristiche abbastanza similari a quelle dei lavoratori extracomunitari, s’è avuto un incremento dei rapporti di lavoro legati alla stagionalità (si pensi all’incremento del 90%) causato dalla prevalenza di impiego durante l’attività di raccolta.
Con i lavoratori comunitari, infatti, il livello d’irregolarità contrattuale, per quel che fa riferimento all’attività lavorativa, risulta essere decisamente più contenuto (23%) grazie all’assenza della clandestinità e grazie alla consapevolezza, da parte di questi lavoratori, dei propri diritti. Si pensi che, negli anni, s’è avuta una sempre più massiccia presenza di cittadini provenienti dalla Romania, all’interno del territorio nazionale, che ha aumentato il numero della componente di lavoratori comunitari agricoli stranieri, riuscendo perfino a superare la famosa componente nord africana, che pur avendo sempre dei numeri alti, è stata sorpassata da quella proveniente dall’est europeo. Infine occorre evidenziare l’assenza di specifiche misure organiche, sull’intero territorio nazionale, riguardo il fenomeno migratorio per il comparto agricolo. Tutto ciò comporta metodiche d’assunzione che non riescono a facilitare il rispetto delle normative e la differenza che viene a crearsi fra le condizioni di vita nelle zone in cui vi è un’enorme propensione migratoria, rispetto ad altre in cui la propensione è decisamente ridotta.
ABSTRACT
L’autore ha effettuato in maniera esaustiva una analisi del fenomeno relativo al lavoro irregolare in agricoltura partendo dalle cause che sono all’origine di tale fenomeno e gli effetti che hanno prodotto nell’ambito del mercato del lavoro agricolo italiano. Infine è stato anche analizzata l’importanza della presenza di lavoratori stranieri, comunitari ed extracomunitari, nell’ambito del mercato del lavoro italiano riferito al comparto agricolo
[1]Comunicazione della Commissione Europea sul Lavoro Non Dichiarato, 98-219
[2]Salvatore Dovere, Antonio Salvato, Lavoro <<nero>> e irregolare. Percorsi giurisprudenziali, Giuffrè, 2011
[3] Art. 8, 2° comma, della legge 12 Marzo 1968 n. 334
[4]Pietro Alò, Il caporalato nella tarda modernità,Wip Edizioni, 2010
[5] Sono palesi due principali differenze tra il massaro e il caporale. Il massaro offriva servizi indispensabili per conto dell’azienda. L’attuale caporale offre un servizio all’azienda, ma senza esserne dipendente.
[6]P. RAUSEI, Intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera, in DPL, 2011, 34, 1990.
[7]Vecchi e nuovi mediatori. Storia, geografia ed etnografia del caporalato in agricoltura, Domenico Perrotta, rivista Meridiana, 2014
[8] Redazione Ansa Roma 30 ottobre 2019 10:11
[9] CGIL-FLAI, Terzo Rapporto Agromafie e Caporalato, Osservatorio Placido Rizzotto, 2016
[10] Indagini fornite da Eurispes.
[11] Manuela Cicerchia, Indagine sull’impiego degli immigrati in agricoltura in Italia, Istituto Nazionale di Economia Agraria, 2014
[12] Cecilia Manzi, Elena Catanese, Roberto Gismondi, L’evoluzione delle aziende agricole in Italia: evidenze dall’indagine SPA 2013, Dati Istat, 2015