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La responsabilità sociale d’impresa in ambito giuridico internazionale

1.Premessa; 2. La responsabilità sociale di impresa tra legislazione ed autoregolamentazione; 3. L’attività delle multinazionali e gli strumenti di regolamentazione; 4. Il ruolo dell’Organizzazione Internazionale del lavoro; 5. La strategia di CSR nell’Unione Europea

  1. Premessa

Il dibattito internazionale ed interdisciplinare sulla Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) oCorporate Social Responsibility (CSR), secondo l’equivalente terminologia anglosassone, ha assunto negli ultimi anni connotati e dimensioni di particolare rilevanza. Il tutto è scaturito dalla crescente attenzione manifestata dai principali attori del mercato verso l’accoglimento di istanze sociali ed ambientali ed alla diffusione di politiche di Responsabilità Sociale di Impresa, adottate dalle istituzioni comunitarie e dalle organizzazioni internazionali. Tutto ciò ha stimolato il confronto tra punti di vista differenti in ordine alla definizione ed allo sviluppo del concetto di “responsabilità sociale”.

Si tratta di convincersi all’idea che l’impresa, nel mutato contesto economico odierno, debba assumersi precise responsabilità nei confronti della collettività, modificando le proprie strategie di mercato e realizzando comportamenti che vadano oltre la logica della mera massimizzazione del profitto, attraverso un’efficace gestione delle problematiche etiche e sociali.

  1. La responsabilità sociale d’impresa tra legislazione ed autoregolamentazione

Il dibattito relativo alla Responsabilità Sociale di Impresa ha avuto inizio intorno agli anni Trenta per poi risolversi nello scontro ideologico sugli interessi che i manager di una impresa dovrebbero perseguire. In pratica si è iniziato a pensare se l’impresa dovesse anche essere considerata un’istituzione al servizio della collettività e quindi dei vari stakeholder. Nel corso del tempo, con l’affermarsi di una concezione della libertà d’impresa e di concorrenza quali elementi fondanti dell’economia internazionale, si è assistito ad un processo evolutivo e culturale caratterizzato da una profonda penetrazione dell’etica nei rapporti economici, che è giunto sino a dirigerne l’azione.[1]

La necessità di inserire la questione etica nella dimensione imprenditoriale, nasce dalla considerazione, sempre più diffusa in ambito internazionale, secondo cui l’attenzione dell’impresa verso istanze sociali, etiche ed ambientali delle comunità, costituisca una condizione imprescindibile per uno sviluppo sostenibile e durevole. Pertanto si è giunti a ritenere  che la responsabilità sociale, rappresenta per una impresa uno strumento efficace per trovare una risposta adeguata e soddisfacente alle istanze che giungono dalla società civile.[2]

In questo contesto, le imprese sono chiamate a svolgere un ruolo chiave nei processi di tutela dei diritti umani e dell’ambiente, sviluppando la propria attività produttiva nel pieno rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e delle comunità locali di riferimento. Questo significa attraverso la Responsabilità Sociale di Impresa si afferma quindi una teoria di impresa che concepisce la produzione dei beni non solo limitatamente alla loro funzione di strumento di profitto ma anche come opportunità di realizzazione del benessere sociale. In questo modo l’operato dell’impresa inizia ad essere valutato globalmente non solo in rapporto ai risultati economici raggiunti, ma anche in base alla qualità dell’ambiente lavorativo, al rispetto della natura ed alla qualità del prodotto, in ottemperanza alle linee metodologiche tracciate dalla scuola di pensiero del cosiddetto business ethics[3] secondo il quale le imprese devono necessariamente operare in modo da eliminare le diseguaglianze sociali, contribuendo alla promozione del benessere collettivo. Questa necessità è sorta in occasione di abusi commessi dalle imprese multinazionali che hanno causato danni ingenti alle comunità degli Stati ospiti dei loro stabilimenti. In mancanza di una definizione univoca ed unanimemente accettata di Responsabilità Sociale di Impresa, è possibile definirne i contenuti identificandola come un framework giuridico che include strumenti di natura legislativa riconducibili a diversi settori, inclusi quelli che regolamentano strutturalmente le società commerciali in termini di diritti proprietari, controllo degli organi gestionali, pubblicità degli atti o le normative nazionali di prevenzione e repressione dei fenomeni corruttivi senza dimenticare le normative finanziarie sulle borse valori e le discipline a tutela del lavoro, del consumatore e dell’ambiente. Negli Stati industrializzati la Responsabilità Sociale di Impresa si identifica con un sistema complesso di norme e principi idonei a disciplinare le molteplici sfaccettature dell’attività d’impresa. Invece nei Paesi in via di sviluppo, tali normative sono spesso frammentarie o completamente assenti, il che ha consentito alle multinazionali di avvantaggiarsi indebitamente dei vuoti legislativi.[4]

Il dibattito sulla Responsabilità Sociale di Impresa ha indotto le Nazioni Unite e l’Unione europea ad interessarsi della materia. Da una attenta analisi emerge che la definizione più completa di Responsabilità Sociale di Impresa è riportata proprio nel Libro Verde del 2001 redatto dall’UE, ove la stessa viene qualificata come investimento strategico nell’attuazione del proprio programma di sviluppo commerciale. Questo significa che per un’impresa la decisione di assumere comportamenti valutabili in termini di responsabilità sociale, significa andare oltre i normali obblighi giuridici del diritto interno, per dedicarsi alla cura del capitale umano, della salute e del progresso della società, rispettando l’ambiente e ponendo in essere programmi aziendali atti a produrre sensibili miglioramenti della qualità della vita. Questa impostazione è stata ribadita e confermata dalla Comunicazione della Commissione datata 25 ottobre 2001, che ha vincolato le imprese al rispetto della legislazione applicabile e degli accordi collettivi, cui si aggiunge l’impegno, scevro da ogni obbligo giuridico, ad attuare in autonomia processi di integrazione delle questioni sociali all’interno dell’ecosistema aziendale, al fine di creare un valore condiviso tra proprietari/azionisti e gli altri soggetti interessati.[5]

In ambito internazionale, la definizione di responsabilità sociale d’impresa, è affidata al lavoro del Rappresentante Speciale del Segretario dell’ONU su Business and Human Rights, John Ruggie, secondo cui le imprese sono tenute al rispetto dei diritti umani, evitando di infrangere i diritti degli altri e nell’imprimere un cambiamento di direzione nel caso in cui siano coinvolte in simili pratiche. Consapevole della labilità di un proposito privo dell’assistenza di qualsivoglia obbligo giuridico, al punto 12 della relazione, Ruggie chiarisce che tale responsabilità deve essere tenuta distinta da “legal liability and enforcement”, che rimangano affidate alle legislazioni nazionali.

La responsabilizzazione delle imprese, necessita di una compenetrazione tra legislazioni nazionali e codici di autoregolamentazione affinché possa spiegare i suoi effetti orientando l’attività delle stesse verso il monitoraggio, la prevenzione, la riduzione e la gestione dell’impatto sui diritti umani. Per raggiungere questo scopo, a partire dagli anni Settanta, i paesi promotori di un Nuovo ordine economico su scala internazionale, iniziarono a proporre standard di condotta da introdurre nelle imprese, in modo tale da bilanciare gli obiettivi da essere perseguiti; questi tentativi si fondavano sull’opportunità di favorire la collaborazione tra Stati e multinazionali, rendendo positivo il contributo offerto da queste ultime in termini di investimento nei Pesi ospiti. Tuttavia, in considerazione della rilevante incidenza sui mercati delle imprese multinazionali, quali operatori non statali del diritto internazionale, la Responsabilità Sociale di Impresa di cui necessita la comunità deve svilupparsi attraverso fonti e strumenti di natura internazionale. A riprova di questa evidenza, si pone l’ampia azione delle organizzazioni intergovernative quali ONU, OCSE ed OIL, facendo ricorso soprattutto a fonti di soft law.[6]

Questi strumenti, individuano i principi di Responsabilità Sociale di Impresa che negli ordinamenti nazionali risultano essere il prodotto di differenti regolamentazioni settoriali e sono deputati a controllare e promuovere l’attività delle imprese multinazionali in senso etico. Accanto al concetto di responsibility, la dottrina ha elaborato quello di accountability, in altre parole il fenomeno per il quale l’impresa multinazionale deve rendersi disponibile a sottostare a controlli e monitoraggi posti in essere da soggetti coinvolti nella sua attività e da parte della società civile.

Il quadro delineato, risulta purtroppo fragile dal punto di vista strettamente giuridico, essendo gli strumenti internazionali adottati, privi di una reale forza vincolante, anche se è innegabile come la questione di una responsabilità delle imprese multinazionali stia gradualmente catalizzando l’attenzione su di sé, quale tema fondamentale nell’ambito del diritto internazionale. Resta da stabilire se l’adozione di strumenti di soft law da parte di organizzazioni intergovernative sia sufficiente per ottenere la tutela di quei valori che caratterizzano la responsabilità sociale d’impresa.

  1. L’attività delle multinazionali e gli strumenti di regolamentazione

Il fenomeno della globalizzazione ha inciso in modo particolare sulle relazioni economiche, le quali hanno iniziato a manifestare una spiccata tendenza ad operare su scala internazionale, con conseguente intensificazione degli scambi di merci, capitali, servizi ed informazioni.

I grandi cambiamenti intervenuti nelle relazioni economiche ed internazionali a livello globale hanno comportato una spinta evolutiva non solo per quanto concerne la regolamentazione dei flussi finanziari, ma anche in ordine alla frequenza ed all’ampiezza degli stessi nonché relativamente alle attività economiche svolte dalle imprese multinazionali. Il ruolo svolto da tali imprese ha subito sensibili trasformazioni sin dagli anni Sessanta, ma la cui presenza sulla scena internazionale, risale a diversi secoli prima[7], in concomitanza con l’espansione mercantile europea, basato sul sistema delle “chartered companies”, ovvero società commerciali in possesso di una sorta di licenza idonea all’esercizio dell’attività mercantile, le quali, oltre al commercio, assunsero funzioni tipicamente pubbliche, come il controllo doganale e l’organizzazione di rappresentanze diplomatiche operanti in nome e per conto dello Stato di appartenenza[8], fino all’amministrazione delle colonie stesse.[9] Secondo gli studi effettuati dall’UNCTAD, attualmente opererebbero nel mondo più di 80.000 imprese multinazionali con più di 900.000 società in posizione sussidiaria con sede principale in Europa, Stati Uniti e Giappone.[10] Considerando l’aspetto occupazionale, le multinazionali generano oltre 80.000.000 di posti di lavoro, con un significativo aumento nel settore dei servizi e delle attività industriali tecnologiche. Le imprese multinazionali sulla scia dell’Agenda 21, la Dichiarazione di Johannesburg relativa allo sviluppo sostenibile[11] ed il Plan of Implementation[12], hanno tracciato un percorso di rinsaldamento dei principi di uguaglianza e sostenibilità a cui le multinazionali devono tendere costantemente.

A questo punto, appare evidente come le imprese multinazionali o transnazionali costituiscano la principale forza operante nel settore dell’integrazione economica, con il riconoscimento da parte dei Paesi ospiti, del beneficio apportato nel proprio tessuto economico dagli investimenti effettuati dalle stesse, in termini di lavoro, incremento del Prodotto Interno Lordo e trasferimento di conoscenze tecnologiche.

La comunità internazionale ha tentato di porre un argine allo strapotere delle multinazionali, elaborando standard etici di condotta da implementare negli assetti di corporate governance, senza tuttavia riuscire a dotarli di quella coattività necessaria ad assicurarne il rispetto e ad ostacolare la commissioni di gravi violazioni dei diritti umani ai danni della popolazione residente o dei diritti dei lavoratori impiegati negli stabilimenti delle multinazionali.

A tal proposito, sono divenuti tristemente famosi con ampio risalto nelle cronache di tutto il mondo, i casi Drummond[13] e Del Monte[14]accusate di complicità nella commissione di violazioni dei diritti sindacali dei lavoratori, senza dimenticare la Texaco, impresa petrolifera statunitense, condannata dai tribunali dell’Ecuador al maxi-risarcimento di 18 miliardi di dollari per la sua opera di deforestazione e sversamento di rifiuti industriali nelle falde acquifere. Questi casi citati, sono solo alcuni dei numerosi casi di aperte violazioni del diritto internazionale ed inosservanza degli standard posti a tutela dei lavoratori e dell’ambiente di cui le multinazionali si sono rese artefici o complici. Attribuire diritti  ed obblighi alle imprese multinazionali, rappresenterebbe il primo passo per il riconoscimento in capo alle stesse dello status di soggetto del diritto internazionale. Inoltre, la dottrina favorevole al riconoscimento di una soggettività internazionale, non ha mancato di portare a supporto della sua teoria, argomenti quali la circostanza che le imprese multinazionali siano costantemente destinatarie di linee guida, codici di condotta, raccomandazioni e rapporti elaborati da organizzazioni internazionali, la cui opera è espressamente dedicata alla regolamentazione della loro attività. Il fulcro del ragionamento è rappresentato dal fatto che, la soggezione delle multinazionali alle norme di diritto internazionale, soprattutto a quelle concernenti la tutela dei lavoratori e la difesa dell’ambiente, consentirebbe alle organizzazioni internazionali di dotare di forza vincolante le disposizioni rivolte direttamente alle multinazionali, riuscendo laddove fino ad ora, esse hanno sempre fallito.

  1. Il ruolo dell’’Organizzazione Internazionale del Lavoro

A partire dagli anni Settanta, l’impatto delle imprese multinazionali sulla politica sociale e sul lavoro è stato oggetto di analisi approfondite da parte dell’International Labour Organization (OIL).

Nel 1977, il Consiglio di Amministrazione dell’OIL adottò la Dichiarazione Tripartita di Principi sulle Imprese Multinazionali e la Politica Sociale[15], contenenti una serie di dichiarazioni di principio e convenzioni internazionali in materia di lavoro che le parti sociali sono espressamente invitate a rispettare e ad applicare in tutta la loro estensione applicativa. In particolare, un altro testo di rilievo adottato dall’OIL nel 1998, ovvero la Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali dei lavoratori[16], la quale enucleava quattro principi fondamentali nelle relazioni lavorative, quali la libertà di associazione ed il riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva, l’eliminazione di qualsiasi forma di lavoro forzato o obbligatorio, l’abolizione del lavoro minorile e l’eliminazione di ogni forma di discriminazione. Questi principi, vennero qualificati nel corso del Summit di Copenaghen del 1995 come “core labour standards” e furono recepiti nella Dichiarazione Tripartita, caratterizzata da portata universale, per essere destinati ad orientare la condotta delle imprese multinazionali, degli imprenditori e dei governi in temi assoluto rilievo quali l’occupazione, la formazione dei lavoratori, le condizioni di lavoro e di vita e le relazioni industriali.

Il preambolo della Dichiarazione Tripartita, esorta le imprese ad offrire il proprio contributo al progresso economico e sociale, nonché a ridurre e risolvere le difficoltà che le loro operazioni possono creare. Le imprese, infatti, grazie ai loro ingenti investimenti, possono apportare benefici agli home and host Countries, utilizzando in modo efficace il capitale, la manodopera e la tecnologia. Anche i principi contenuti nella Tripartita, sono applicabili esclusivamente su base volontaria da  parte dei governi e delle organizzazioni dei lavoratori cui sono destinati.

Dal punto di vista strutturale, la Dichiarazione consta di 59 paragrafi, suddivisi in un Preambolo e 5 sezioni speciali, la prima generale e le restanti dedicate a tematiche specifiche.

Nella Prima parte, intitolata Politica Generale, è contenuta la dichiarazione secondo cui le parti interessate sono tenute a rispettare la legislazione ed i regolamenti nazionali insieme ai diritti sovrani degli Stati, oltre ai principi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e dei Patti delle Nazioni Unite. Inoltre viene consigliato ai governi di ratificare le Convenzioni OIL o di applicare in altro modo i principi in esse contenuti; mentre ai Paesi di origine delle multinazionali è riconosciuto un dovere di promozione delle best practices, ovunque esse operino. La seconda sezione, dedicata all’Occupazione, rinvia direttamente all’osservanza delle risultanze della Conferenza Mondiale Tripartita sull’occupazione, la ripartizione del reddito, il progresso sociale e la divisione internazionale del lavoro, che stabiliscono di incentivare la crescita occupazionale e lo sviluppo economico, elevando le condizioni di vita dei lavoratori attraverso una politica attiva tesa al raggiungimento del pieno impiego.

La terza sezione, relativa ai temi della Formazione, contiene l’invito rivolto alla multinazionali affinché intraprendano programmi di orientamento professionale, partecipando al finanziamento di fondi e progetti diretti ad acquisire ed accresce la qualificazione professionale. I principi stabiliti nella quarta sezione riguardano le Condizioni di vita e di lavoro, attraverso cui si raccomanda l’equiparazione del trattamento economico dei dipendenti dell’impresa a quello dei lavoratori di pari livello impiegati nelle aziende locali[17]. Nel caso in cui non esistano datori di lavoro da utilizzare come termine di paragone, dovrebbero essere accordati i salari più favorevoli e le migliori prestazioni economiche possibili, basandosi sulla situazione economica e finanziaria dell’impresa. Per quanto concerne l’età di accesso al mondo del lavoro, si invitano le imprese a rispettare le legislazioni nazionali adoperandosi per la definitiva eliminazione del lavoro minorile. Nell’ultima sezione, dedicata alle Relazioni Industriali, viene stabilito che l’impresa deve assicurare ai suoi dipendenti, standard di tutela dei diritti sociali in misura non inferiore a quelli vigenti a livello locale. Ai lavoratori, inoltre, deve essere riconosciuta la possibilità di aderire ad organizzazioni rappresentative senza temere ripercussioni discriminatorie nei loro confronti. La Dichiarazione Tripartita, stante la non vincolatività dei principi in essa espressi, prevede una procedura articolata di follow-up, idonea a verificare la conformità dei comportamenti adottati dalle multinazionali con gli standard stabiliti. Organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, sono tenute a presentare dei rapporti periodici relativi all’attuazione dei principi della Tripartita a livello nazionale da parte dei Governi e delle imprese multinazionali, ponendo l’accento sulla necessaria cooperazione tra Governi, organizzazioni imprenditoriali e rappresentative dei lavoratori ed operando un rinvio alle leggi nazionali ed alle politiche sociali nazionali, in un’ottica di integrazione dell’impresa nel tessuto economico dello Stato in cui svolge la propria attività. Le criticità più evidenti, sono rappresentate dalla carenza di un efficace sistema di vigilanza e controllo oltre che dalla consueta assenza di vincoli giuridici. Tuttavia, la generale applicazione dei principi della Dichiarazione Tripartita sembra possa essere raggiunta non solo mediante procedure di monitoraggio, ma anche attraverso l’attività di promozione svolta dalle associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, tesa a creare obblighi per le imprese nei confronti dei loro dipendenti, senza dimenticare l’influenza esercitata sui Governi, che in molti casi ha portato gli stessi a riformulare radicalmente alcuni standard in conformità a quanto stabilito dalla Dichiarazione stessa.

  1. La strategia di CSR nell’Unione Europea

L’unione Europea ha iniziato ad occuparsi delle tematiche inerenti alla Responsabilità Sociale di Impresa, con colpevole ritardo, solo agli inizi degli anni Novanta[18], quando il Presidente della Commissione Jacques Delors presentò il Manifesto delle imprese contro l’esclusione sociale. Attraverso tale iniziativa le imprese manifestavano la propria volontà ad impegnarsi nel rafforzare la propria responsabilità sociale, combattendo l’emarginazione derivante dalla disoccupazione. Questo progetto, fu sottoscritto a Londra nel 1995 dagli Stati membri, richiamandosi esplicitamente al Libro bianco Crescita, competitività ed occupazione. La  pubblicazione del Libro Bianco determinò la nascita di CSR-Europe, un vero e proprio network di oltre settanta imprese multinazionali e trentasei organizzazioni partner, con lo scopo di assistere le compagnie operanti in Europa nello sviluppo di una competitività sostenibile, in ottemperanza ai diritti fondamentali della persona. Nel 1999 il Parlamento europeo adottò una Risoluzione denominata Howitt riguardanti le norme comunitarie applicabili alle imprese europee con stabilimenti situati in Paesi in via di sviluppo[19]. Attraverso tale Risoluzione si mirava  ad approvare ed incentivare iniziative volontarie di imprese ed associazioni rappresentative degli interessi dei vari stakeholder, dirette ad elaborare codici di condotta e meccanismi di controllo per garantirne l’attuazione. Tale atto, reca con sé elementi di assoluta unicità, come l’invito alla creazione di un organismo di controllo e monitoraggio imparziale ed autonomo, con il riconoscimento internazionale da parte di OCSE ed OIL, competente a ricevere reclami da parte di ONG, rappresentanti dei lavoratori ed associazioni di consumatori, circa le violazioni commesse dalle imprese in materia di diritti umani fondamentali. Per quanto innovativa, la proposta del parlamento, pecca di eccessiva genericità, in quanto non definisce il rapporto che doveva intercorrere tra questo organismo di controllo indipendente ed i tribunali nazionali, ingenerando confusione sotto il profilo della competenza giurisdizionale. Il tema della Responsabilità sociale tornò al centro del dibattito europeo nel corso del Consiglio di Lisbona del 2000, durante il quale fu sollevata da più parti la necessità di responsabilizzare le imprese come parte integrante del piano UE che prevedeva entro il 2010 di diventare l’economia più competitiva e dinamica nel mondo, capace di crescere in modo sostenibile, creando migliori condizioni di lavoro ed una maggiore coesione sociale.[20] Per il raggiungimento di questi obiettivi, fu avanzato il proposito di migliorare le legislazioni esistenti, inserendo un nuovo sistema di coordinamento idoneo a diffondere le best practices nel mondo imprenditoriale: una sorta di partnership tra gli Stati membri, gli organi dell’Unione e le parti sociali. Questo sistema di coordinamento, fu istituzionalizzato con l’introduzione del Titolo VIII all’interno del Trattato di Amsterdam.[21]

Il sistema di armonizzazione tra differenti regolamentazioni nazionali, subì un’accelerazione nella sua istituzionalizzazione a seguito dell’adozione del Trattato di Nizza, in particolare grazie all’art. 137, paragrafo 2, che attribuì al Consiglio il potere di adottare misure destinate ad incoraggiare la cooperazione tra Stati membri, stimolando gli scambi informativi e le valutazioni delle esperienze fatte. Si assiste così alla nascita di un approccio differente da parte dell’Unione nei confronti delle tematiche relative all’occupazione, una politica sociale di inclusione orientata a favorire una maggiore integrazione europea, attraverso interventi mirati e coordinati a livello normativo ed amministrativo senza dover necessariamente passare per una difficile, ed a tratti inattuabile, politica di armonizzazione legislativa complessiva. A partire dal vertice di Lisbona, l’UE ha incardinato le politiche nazionali verso la realizzazione di obiettivi comuni, riconoscendo l’importanza del ruolo delle imprese nell’attuazione degli stessi.

 

[1] F. BORGIA, La responsabilità sociale delle imprese multinazionali, cit., p. 70 e 71.

[2] Cfr. F. BORGIA, Strumenti internazionali in materia di responsabilità sociale d’impresa, Milano, 2012.

[3] C. COWTON, R. CRISP, Business Ethics, Oxford, 1998, p. 43 ss.

[4] F. MARRELLA, Regolamentazione internazionale e responsabilità sociale d’impresa nel diritto internazionale, in Diritti umani e diritto internazionale, 2009, p. 229, ha descritto questo fenomeno come <<shopping dei diritti umani>>

[5] COMMISSIONE DELLE COMUNITA’ EUROPEE, Libro Verde. Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese, COM (2001) 366 definitivo, Bruxelles, del 18 luglio 2001, p. 7

[6] Per soft law devono intendersi regole sociali elaborate dagli Stati o da altri soggetti di diritto internazionale che si caratterizzano per la loro non vincolatività, pur avendo uno speciale rilievo giuridico. Definizione di D. THURER, voce Soft Law, in The Max Planck Encyclopedia of Public International Law, Oxford, 2012, p. 269 ss.

[7] Sull’argomento, si veda P. J. MCNULTY, Predecessor of Multinational Corporations, in Columbia Journal of World Business, 1972, p. 73 ss.

[8] F. FRANCIONI, Imprese multinazionali, Protezione diplomatica e Responsabilità internazionale, op. cit., p. 9 e 10.

[9] Cfr. S. R. RATNER, Corporations and Human Rights: A Theory of Legal Responsibility, in Yale Law Journal, 2001 p. 453.

[10] Dati tratti da UNCATD, World Investment Report 2012. Towards a New Generation of Investment Policies

[11] UNITED NATIONS, Johannesburg Declaration on Sustainable Development, adottata in data 4 settembe 2002

[12] Cfr. Johannesburg Plan of Implementation of the World Summit on Sustainable Development

[13] UNITED STATES COURT OF APPEAL FOR THE ELEVENTH CIRCUIT, Locarno Baloco et al.  V. Drummond Company, Inc., No. 09-16216, del 3 febbraio 2011. La compagnia venne accusata di gravi violazioni dei diritti sindacali nelle proprie facilities colombiane, oltre che dell’uccisione di tre leaders sindacali

[14] UNITED STATES COURT OF APPEAL FOR THE ELEVENTH CIRCUIT, Villeda Aldana et al. V Del Monte Fresh Produce, Inc., 04-10234, dell’8 luglio 2005

[15] INTERNATIONAL LABOUR ORGANIZATION, Tripartite Declaration of Principles Concerning Multinational Enterprises and Social Policy, adottata a Ginevra in data 16 novembre 1997 ed emendata nel novembre del 2000 e del 2006, testo disponibile su www.ilo.org

[16] INTERNATIONAL LABOUR ORGANIZATION, Declaration on Fundamental Priciples and Rights to Work, adottata a Ginevra in data 18 giugno del 1998, testo reperibile in International Legal Materials, 1998, p. 1233 ss.

[17] Secondo A. BONFANTI, Imprese multinazionali, diritti umani e ambiente. Profili di diritto internazionale pubblico e privato, p. 179, tale disposizione potrebbe non risultare funzionale alla tutela dei lavoratori

[18] Per quanto riguarda le iniziative dell’UE in materia di Rsi, si vedano A. MEISLING, J. LUX, S. SKADEGARD, The European Initiatives, in R. MULLERAT (ed.), Corporate Social Responsibility. The Corporate Governance of the 21st Century, International Bar Association Series, The Hague, 2005

[19] PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione sulle norme comunitarie applicabili alle imprese europee che operano nei Paesi in via di sviluppo: verso un codice di condotta europeo, adottata in data 15 gennaio 1999, in GUCE, p. 180 ss

[20]CONSIGLIO EUROPEO DI LISBONA, Conclusioni della Presidenza, Lisbona, 23.24 marzo 2000

[21]Cfr. Art. 2 e Art. 127 TCE. Venne creato un comitato per l’occupazione con funzioni consultive

ANALISI DEL LAVORO IRREGOLARE IN AGRICOLTURA

  1. Premessa

Il comparto agricolo è sempre stato ritenuto uno dei settori dove, per una serie di concause, si sviluppa maggiormente lavoro irregolare caratterizzato spesso dal proliferarsi del turpe fenomeno del caporalato che fino ad oggi non si è riusciti a debellare definitivamente. Oltretutto l’incidenza della presenza di manodopera straniera abbinata ad una disciplina da rivedere per accedere all’indennità di disoccupazione agricola alimentano in modo chiaro l’impiego di lavoratori irregolari nel comparto agricolo.    

  • Le cause del lavoro agricolo irregolare

Si definisce lavoro irregolare svolto nel comparto agricolo quel rapporto lavorativo, che non rispetta né parzialmente, né totalmente, il complesso normativo che disciplina e regola il lavoro nel Paese risultando privo dell’opportuna tutela che, invece, viene concessa al lavoro agricolo regolare. L’accezione “irregolare” rappresenta una definizione abbastanza comune, usata anche in altri settori, per indicare l’assenza di registrazioni legali, come quella ufficiale, dei pagamenti delle imposte e dei contributi necessari per la previdenza sociale. La peculiarità di questa accezione trova la sua intrinseca natura proprio nella forma non dichiarata alle pubbliche autorità[1], e di conseguenza ignota al complesso amministrativo che provoca un perfetto accostamento tra mancanza di dichiarazione e mancanza di tutela a sostegno del lavoratore. Il fenomeno del lavoro agricolo irregolare continua a costituire un punto cruciale che interessa il comparto giuridico quanto quello economico-sociale, e che, proprio per ciò, deve essere affrontato considerando le due principali cause che fanno da sfondo a tale tematica. La prima causa può essere imputata ad un repentino mutamento evolutivo del mercato del lavoro, caratterizzato, in passato, da evidenti connotati pubblicisti, soprattutto per quello che riguardava la genesi delle condizioni lavorative, e, in seguito, da una forte propensione alla flessibilità lavorativa, all’atipicità dei contratti e alla liberalizzazione dello stesso mercato. In questo modo si è assottigliata ancor più la linea di confine tra lavoro regolare e irregolare[2]. La seconda causa è imputabile ai nefasti effetti della crisi economica che hanno portato verso scelte organizzative tendenti alla riduzione dei costi, delle tasse e del lavoro, radicando ulteriormente il problema.

Questo intreccio, inevitabilmente, ha portato ad uno scompenso di natura socio-economica, permettendo ai soggetti del mercato del lavoro agricolo di attuare alcune scelte, da un lato dettate dal profitto, dall’altro dettate dalla disperazione, creando delle tipologie abbastanza differenti.

Purtroppo in Italia, ma purtroppo anche nel resto d’Europa, il costo del lavoro nel suo complesso risulta decisamente alto, per cui i datori di lavoro tendono a ridurre al minimo, tali spese, visto che la mancata dichiarazione del lavoratore rappresenta una tentazione appetibile sul piano economico.

Il lavoratore, dal canto suo, accetta, senza resistenza alcuna, ogni opportunità lavorativa, seppure mal retribuita e a condizioni precarie, perché spinto dalla necessità di guadagnare quel che basta per la sussistenza di sé e di un’eventuale famiglia. Elementi come la natura stagionale delle mansioni lavorative, l’ampia presenza della manodopera a basso costo causata soprattutto dal continuo flusso di immigrazione clandestina, e l’accesso facilitato ad ammortizzatori sociali, come la disoccupazione agricola[3]spettante dopo cinquantuno giorni lavorativi, validamente certificati, sono le cause che favoriscono il lavoro irregolare nel settore agricolo.

Inoltre da una analisi del fenomeno nel comparto agricolo si evince facilmente come  le situazioni appena enunciate siano divenute cause che inevitabilmente hanno portato il datore di lavoro agricolo  a far ricorso all’irregolarità, radicandosi nella trama settoriale del comparto agricolo[4].

  • L’origine e gli effetti del lavoro agricolo irregolare

Il lavoro irregolare nell’ambito del comparto agricolo ha, alle sue spalle, una storia davvero lunga, radicata nelle differenti culture locali d’Italia. I mezzi d’informazione, difatti, hanno iniziato a trattare tale questione durante gli anni settanta, ma con scarso interesse, per poi focalizzare nuovamente l’attenzione verso i primi anni del duemila, in seguito ad alcuni gravi fatti di cronaca. Tutto ciò ha avuto come conseguenza una mobilitazione, seppur in ritardo, di sindacati e movimenti a tutela delle fasce più deboli. Occorre, però, fare una piccola premessa storica che possa chiarire, il panorama che ha fatto da sfondo, fin dai suoi primordi, al movimento del caporalato. Stando a diversi resoconti storici, questo sistema di reclutamento della manodopera si è sviluppato, più o meno allo stesso modo, in gran parte del territorio italiano nel momento in cui si è avuto un graduale passaggio dall’agricoltura di sussistenza ad una di proporzioni maggiori, dettata da esigenze del mercato agricolo pretenziose. 

A partire dal seicento-settecento vi furono le prime migrazioni stagionali interne al territorio italiano, dove erano presenti figure simili a quella dell’attuale caporale che avevano come compito quello di convogliare la forza lavoro per poi metterla a disposizione dei latifondisti. Nella prima metà dell’ottocento, con una progressiva crescita dei centri agricoli, si ebbe una rivoluzione socio-economica che diede vita all’agricoltura dei capitali. Fu in questo periodo che si svilupparono figure che acquisirono un ruolo quasi simile a quello dell’attuale caporale, differente dall’antico fattore, chiamato spesso “massaro”[5]  a cui venivano affidati, dai proprietari terrieri, compiti di amministrazione dei diversi lavori, affinché lo svolgimento degli stessi venisse correttamente svolto.

Spostandoci nel tempo, a partire dalla fine degli anni sessanta, iniziò a prendere forma il percorso riguardante l’attuale caporale.  Il caporale nasce come un ex bracciante con delle capacità superiori nella norma, dotato di uno spirito di intraprendenza abbastanza deciso, che solitamente ha avuto modo di lavorare in contesti extranazionali, acquisendo una maggiore esperienza sul campo. Dapprima, come ex braccianti, i caporali, coi soldi risparmiati, acquistavano mezzi di trasporto capienti, atti al trasporto sul luogo di lavoro, e offrivano passaggi agli altri lavoratori in cambio di una modesta somma di denaro, un investimento in una forma sempre più consolidata. La messa a profitto del mezzo di trasporto fu la prima tappa che segnò l’avvento dell’odierno caporalato. Verso i primi anni ottanta soggetti terzi al mondo agricolo, spesso legati alla criminalità locale, iniziarono ad intravedere la possibilità di trarre profitti dall’attività di trasporto e, in seguito, da quella di intermediazione. Inizia, in questo periodo, l’era del caporalato duro, ove si ricorre alla violenza e si stipano braccianti in automezzi come animali, in una precaria condizione igienico-sanitaria. Invece l’evoluzione, in ogni caso, ha continuato il suo progresso, arrivando a creare una sorta di “omologazione” apparentemente regolare, in cui i caporali, mediante l’utilizzo di veri e propri autobus, si impegnano a trasportare i braccianti per conto di “cooperative” agricole di mera facciata che sostengono di aver regolarmente assunto i lavoratori. Questa nuova forma di caporalato è sospinta da una tendenza all’elusione delle normative, che permette, dunque, di poter facilmente aggirare i controlli delle autorità. In modo particolare l’assenza di norme riguardanti la sicurezza sul posto di lavoro nei campi sembra essere totalmente assente.

Nel mondo del lavoro agricolo ogni soggetto dovrebbe lavorare con le adeguate protezioni, ovviamente standardizzate per il tipo di mansione svolta, invece spesso essendoci una totale illegalità, l’uso delle protezioni è assente, e di conseguenza abbiamo la diffusione della malasanità che non si ferma soltanto sul posto di lavoro, ma continua il suo tragitto anche nei luoghi in cui i lavoratori, in questo caso quasi sempre extracomunitari, soggiornano. La figura di riferimento principale, in questo caso, è quella del caporale, che rappresenta un elemento di intermediazione tra le imprese agricole e i lavoratori. Al caporale spetta il compito di organizzare una manovalanza qualificata, a seconda delle richieste dell’imprenditore agricolo, attraverso un sistema di reclutamento laddove lo stesso prende una percentuale sul salario dei braccianti. Alle prime luci dell’alba, i caporali si recano nei punti di “raccolta”, e caricano sui pulmini tutti i braccianti, trasportandoli direttamente sul luogo di lavoro, dove finiscono con occuparsi della stessa organizzazione direttiva e di controllo, stabilendo ritmi e orari lavorativi, spesso con l’uso dell’intimidazione e della violenza per ottenere efficienza ed efficacia in modo tempestivo[6].

Il caporale, a sua volta, lavora per un’impresa utilizzatrice di natura fittizia, che solitamente non è collegata all’imprenditore agricolo per evitare problemi di natura legale, e che si occupa della sua retribuzione. I braccianti, invece, vengono direttamente retribuiti dal caporale che, attraverso l’uso di tangenti, specula sull’ammontare totale. Proprio per questo, dunque, dobbiamo pensare all’intermediazione tra braccianti e imprenditori come a un qualcosa di dinamico ed eterogeneo, che assume caratteri e connotati differenti, mutevoli nel tempo e nello spazio, e che per questo necessita di approfonditi interventi “chirurgici”, atti a debellare, modo definito, l’illegalità del mondo agricolo[7].

4.  Indagine conoscitiva sul lavoro agricolo irregolare in Italia

Esaminando i dati resi noti negli ultimi anni dall’Istat, sul piano economico nazionale, il comparto agricolo risulta essere tra i settori in cui vi è il più alto tasso d’irregolarità nei rapporti di lavoro con un incremento della presenza nei campi, da parte dei lavoratori sfruttati, che, a quanto pare, ha raggiunto la cifra di 430.000, di cui 100.000 risultano essere stranieri. Stando inoltre ai dati che emergono dal focus Censis, reso noto durante l’assemblea della cooperazione agroalimentare e della pesca del 2019, in agricoltura la quota del sommerso ha raggiunto il 16,9% ed è cresciuta nel periodo tra il 2014-2017 di 0,5%.[8]  

La criminalità organizzata, ovviamente, specula sullo sfruttamento della manodopera a basso costo che rappresenta una fonte di economia illegale che si aggira tra i 14 e i 17 miliardi. In modo particolare è stato quantificato un danno contributivo dovuto all’evasione pari a 420.000.000 di euro l’anno, a cui va aggiunta quella quota di reddito, pari al circa il 50% della retribuzione spettante, per contratto nazionale, al lavoratore, che viene prelevata dal caporale.

Questi dati emergono dalla ricerca condotta da Flai-CGIL[9] che ha interessato ben quattordici regioni, e sessantacinque province, col solo intento di individuare i flussi di manodopera stagionale e i focolai delle aree in cui lo sfruttamento del lavoro sembra essere più presente. Sono stati controllati oltre ottanta focolai di rischio, di cui trentasei caratterizzati da un tasso di sfruttamento della manodopera davvero alto, dal nord al sud, perché il caporalato risulta essere diffuso su tutto il territorio nazionale.

Oltre le regioni del sud Italia, ossia Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, v’è stato un boom del fenomeno al centro nord, con particolare riguardo per l’Emilia Romagna, il Piemonte, la Lombardia, la Toscana, il Veneto e il Lazio.

I lavoratori agricoli, vittime del caporalato, percepiscono, approssimativamente, una somma di denaro che si aggira tra i venticinque e i trenta euro per un corrispettivo di dieci o dodici ore di lavoro, pari ad appena due euro per ogni ora trascorsa a lavorare. A tale paga, però, devono essere sottratte quelle che potremmo definire come le “tangenti” giornaliere che consistono in: cinque euro adoperate per il semplice trasporto sul luogo di lavoro, tre euro e cinquanta per il pasto, un euro e cinquanta per ogni bottiglia d’acqua consumata.

Pur essendo aumentate le ispezioni del 59% soltanto nel 2015, considerando i dati forniti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali riguardanti tutti gli interventi, attuati dalle autorità preposte alla vigilanza all’interno del comparto agricolo, risulta che sono state effettuate più di 8.700 ispezioni all’interno delle imprese agricole, e in questo modo s’è riscontrato un tasso d’irregolarità molto alto. Nonostante ciò il sommerso economico, così come il lavoro nero e irregolare, ha raggiunto livelli di criticità che potremmo definire endemica per quel che riguarda il contesto agricolo italiano. Le indagini[10] che sono state condotte in passato, precisamente nel 2012, danno un quadro abbastanza chiaro da cui emerge come il fenomeno del caporalato, non abbia avuto difficoltà ad aggirare le azioni apportate dagli interventi governativi posti in essere nel corso degli anni. Infatti i risultati ottenuti dalle autorità ispettive, durante i mesi di luglio e agosto del 2012, si è potuto stabilire che il 60,47 % delle imprese agricole versava in uno stato di totale irregolarità.

Sempre dallo stesso controllo, inoltre, è scaturita una situazione riguardante i lavoratori, con una percentuale del 17% di lavoratori irregolari, una del 13% per i lavoratori in nero, di cui il 31% fa totale riferimento all’impiego di manodopera straniera. L’agricoltura, quindi, risulta essere il settore in cui il mercato del lavoro è quasi totalmente nelle mani dei caporali, che col passaparola delle reti prettamente informali riescono ad acquisire manodopera a basso costo, considerando che questo comparto è, infatti, interessato da un’elevata diffusione di seconde attività che vengono prestate marginalmente, in modo occasionale e nella più totale irregolarità lavorativa. Già dal 2011, si aveva a che fare con una cifra che ruotava attorno ai 2.938.000 lavoratori irregolari che erano appunto impiegati nel comparto agricolo, tra cui vi erano circa 2.301.000 lavoratori dipendenti, e 640.000 lavoratori autonomi.

Da tali dati è emerso come il comparto agricolo risulti essere il settore con la maggiore incidenza di lavoratori irregolari, considerando che tale comparto fa denotare una crescita preoccupante del tasso di irregolarità tenendo in considerazione un’indagine conoscitiva arco temporale che parte dal 1999, pari al 22,6%, arrivando al 2016, con un tasso del 26,5%. L’irregolarità del rapporto di lavoro in agricoltura scaturisce dal carattere stagionale dell’attività agricola, che necessita dell’ampio utilizzo della manodopera giornaliera, essendo il prodotto agricolo tendenzialmente caratterizzato da una deperibilità abbastanza celere. Ovviamente l’irregolarità viene manifestata in due modi: attraverso il lavoro nero ed attraverso quello fittizio. Nel primo troviamo un lavoro che viene effettivamente svolto, ma che non viene dichiarato per aggirare il pagamento dei contributi sociali e per sfuggire al prelievo fiscale effettuato dallo Stato. Nel secondo, invece, troviamo un lavoro che non è mai stato effettivamente svolto, ma viene dichiarato per poter beneficiare, mediante iscrizione negli elenchi agricoli, dei sussidi e dei trasferimenti pubblici che possono essere di varia natura.

  • La presenza dei lavoratori stranieri all’interno del mercato del lavoro agricolo italiano

Considerando l’indagine[11] effettuata dall’INEA sull’impiego dei lavoratori immigrati all’interno del comparto agricolo italiani, si è riusciti ad ottenere un quadro abbastanza chiaro con delle situazioni che risultano essere molto interessanti.

Riferendosi all’incremento del fenomeno migratorio che continua a perdurare dandoci una stima che già nel 2012, si aggirava attorno alle 36.000 unità con un numero complessivo di stranieri occupati all’interno delle zone rurali italiane che è pari a 269.000. Al continuo incremento finiscono col contribuire i lavoratori extracomunitari, 143.620 in tutta la loro totalità (quindi con un incremento del 13%, considerando un prospetto del 2011) e i lavoratori comunitari, che invece hanno un incremento pari al 18%. Cercando di interpretare tale fenomeno con circoscrizioni territoriali, emerge che nel nord Italia vi è stata una vera e propria concentrazione di stranieri[12], con una totalità di 110.000 persone, seguita dal sud Italia che conta la presenza di 85.000 lavoratori stranieri. Per quello che concerne il centro Italia e le isole, invece, abbiamo dei risultati decisamente più delimitati, dove troviamo 42.000 e 29.000 lavoratori, con la Sardegna che ha un suo bilancio in attivo per il minor numero di lavoratori stranieri, e la Sicilia, invece, che vede un incremento spropositato di 20.000 stranieri rispetto al passato. Il ricorso ai lavoratori stranieri ha una sua relazione con le scelte degli imprenditori agricoli italiani, perché, visto che tale situazione continua a perdurare nel tempo, si può asserire che l’aumento della produzione agricola intensiva, affinché si possano rispettare i termini del mercato ortofrutticolo, porti ad una necessità di manodopera economica in quantità superiori.

In questo modo, dunque, si è avuta una radicale trasformazione delle aziende agricole italiane che, in passato, avevano sempre fatto affidamento sulla manodopera di tipo familiare, mediante le collaborazioni occasionali o familiari, e che adesso iniziano ad investire su quella non familiare, con particolare tendenza al sud e al nord Italia, fatta eccezione per la Sardegna, ove ancora è dominante la presenza di manodopera familiare caratterizzata dall’impiego di lavoratori stranieri. Per tutti i lavoratori provenienti dai Paesi comunitari, in sostanza, può dirsi che l’aumento verificatosi è strettamente legato sia alle relazioni consolidatesi, col passar del tempo, tra i sistemi datoriali e la manodopera, con un’impressionante facilità di mobilitazione delle persone che avviene grazie alla totale mancanza delle barriere nell’Unione Europea.

I lavorati extracomunitari, d’altronde, sono praticamente occupati nelle coltivazioni arboree e nella filiera della zootecnia, con un ridotto utilizzo della loro manodopera nelle colture industriali e nel florovivaismo, anche se risulta essere in crescita il numero dei lavoratori extracomunitari coinvolti sia all’interno delle aziende agrituristiche che nel processo di trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli. Invece i lavoratori comunitari sono impiegati per lo più nelle attività da ricollegare alle colture arboree, in particolar modo in Trentino e in Puglia, affinché si possa effettuare la raccolta dei fruttiferi e dell’uva da tavola. La stagionalità dei rapporti di lavoro, come sempre, viene confermata, con una propensione all’aumento nelle regioni meridionali e nelle isole italiane. Per quel che riguarda l’aspetto contrattuale, per il 71,8% dei casi presi in esame, si hanno dei rapporti di lavoro regolari, però c’è da dire che sono molto presenti le situazioni in cui vi è la regolarità meramente parziale, in cui assistiamo a delle dichiarazioni nettamente inferiori di tutte le giornate di lavoro effettuate, oppure di ore di lavoro che sono state fatte svolgere in più, a discapito di quelle previste dal contratto di lavoro. La maggior parte della legalità caratterizzante i rapporti di lavoro è concentrata nel centro-nord, ricordando di segnalare la Calabria, in passato caratterizzata da stime di irregolarità del tutto vicine al 90%, che in seguito ha potuto intraprendere un cambiamento positivo di tutta la situazione, con fenomeni di irregolarità lavorativa che non hanno superato la soglia del 50%. Per quello che concerne l’aspetto retributivo, abbiamo una situazione, su tutto il territorio nazionale, che risulta essere davvero frammentata, visto che in regioni come la Puglia e la Calabria la maggior parte di tutti i lavoratori extracomunitari finiscono col ricevere un salario nettamente inferiore a quello che, di norma, dovrebbe spettare. Nonostante i lavoratori comunitari abbiano delle caratteristiche abbastanza similari a quelle dei lavoratori extracomunitari, s’è avuto un incremento dei rapporti di lavoro legati alla stagionalità (si pensi all’incremento del 90%) causato dalla prevalenza di impiego durante l’attività di raccolta.

Con i lavoratori comunitari, infatti, il livello d’irregolarità contrattuale, per quel che fa riferimento all’attività lavorativa, risulta essere decisamente più contenuto (23%) grazie all’assenza della clandestinità e grazie alla consapevolezza, da parte di questi lavoratori, dei propri diritti. Si pensi che, negli anni, s’è avuta una sempre più massiccia presenza di cittadini provenienti dalla Romania, all’interno del territorio nazionale, che ha aumentato il numero della componente di lavoratori comunitari agricoli stranieri, riuscendo perfino a superare la famosa componente nord africana, che pur avendo sempre dei numeri alti, è stata sorpassata da quella proveniente dall’est europeo.  Infine occorre evidenziare l’assenza di specifiche misure organiche, sull’intero territorio nazionale, riguardo il fenomeno migratorio per il comparto agricolo. Tutto ciò comporta metodiche d’assunzione che non riescono a facilitare il rispetto delle normative e la differenza che viene a crearsi fra le condizioni di vita nelle zone in cui vi è un’enorme propensione migratoria, rispetto ad altre in cui la propensione è decisamente ridotta.

ABSTRACT

L’autore ha effettuato in maniera esaustiva una analisi del fenomeno relativo al lavoro irregolare in agricoltura partendo dalle cause che sono all’origine di tale fenomeno e gli effetti che hanno prodotto nell’ambito del mercato del lavoro agricolo italiano. Infine è stato anche analizzata l’importanza della presenza di lavoratori stranieri, comunitari ed extracomunitari, nell’ambito del mercato del lavoro italiano riferito al comparto agricolo   


[1]Comunicazione della Commissione Europea sul Lavoro Non Dichiarato, 98-219

[2]Salvatore Dovere, Antonio Salvato, Lavoro <<nero>> e irregolare. Percorsi giurisprudenziali, Giuffrè, 2011

[3] Art. 8, 2° comma, della legge 12 Marzo 1968 n. 334

[4]Pietro Alò,  Il caporalato nella tarda modernità,Wip Edizioni, 2010

[5] Sono palesi due principali differenze tra il massaro e il caporale. Il massaro offriva servizi indispensabili per conto dell’azienda. L’attuale caporale offre un servizio all’azienda, ma senza esserne dipendente.

[6]P. RAUSEI, Intermediazione illecita con sfruttamento della manodopera, in DPL, 2011, 34, 1990.

[7]Vecchi e nuovi mediatori. Storia, geografia ed etnografia del caporalato in agricoltura, Domenico Perrotta, rivista Meridiana, 2014

[8] Redazione Ansa Roma 30 ottobre 2019 10:11

[9] CGIL-FLAI, Terzo Rapporto Agromafie e Caporalato, Osservatorio Placido Rizzotto, 2016

[10] Indagini fornite da Eurispes.

[11] Manuela Cicerchia, Indagine sull’impiego degli immigrati in agricoltura in Italia, Istituto Nazionale di Economia Agraria, 2014

[12] Cecilia Manzi, Elena Catanese, Roberto Gismondi, L’evoluzione delle aziende agricole in Italia: evidenze dall’indagine SPA 2013, Dati Istat, 2015