I. Premesse.
Il termine “amianto” (’αμίαντος[1]) e il sinonimo “asbesto” (άσβεστος) identifica silicati fibrosi capaci di suddividersi in fibrille lunghe e sempre più sottili. Queste ultime raggiungono il diametro di 0,25 ųm (1300 volte più sottile di un capello umano) e, librate in aria, sono perciò stesso facilmente inalabili.
Nel corpo umano, anche per la loro capacità di immettersi nel flusso sanguigno e linfatico, raggiungono tutti gli organi, e provocano prima infiammazione (asbestosi[2], placche pleuriche e ispessimenti pleurici, con complicazioni cardiovascolari e cardiocircolatorie) e poi varie neoplasie, tra le quali il mesotelioma, tumore del polmone, della laringe e delle ovaie, e con una più elevata incidenza epidemiologica anche il tumore della faringe, e del tratto digerente – stomaco e colon[3]. Non vi è una soglia di esposizione che risulti innocua, e poiché l’Italia è stato il secondo produttore e utilizzatore con 3.748.550, vi sono ancora 40.000.000 di tonnellate di materiali che lo contengono in 1.000.000 di siti e micrositi e diverse decine di interesse nazionale.
Il 2020 ha confermato che le malattie asbesto correlate sono in aumento, e che il plateau non è stato ancora raggiunto, e secondo stime dell’ONA lo sarà solo tra il 2025 e il 2030, ed è per tale ragione che è necessaria prima di tutto la messa al bando totale dell’amianto (ancora lavorato e prodotto in Cina[4], piuttosto che in India, Russia, e in altri stati, e poi l’attività di bonifica, per evitare le future esposizioni.
Le malattie asbesto correlate, alcune monofattoriali, sono dose dipendenti e, quindi, l’unico effettivo strumento per la tutela della salute è quello della prevenzione primaria.
Così anche nella revisione del Consenso di Helsinki[5].
II. Amianto: la conoscenza antica della sua letalità e la tardiva messa al bando.
II. Amianto: lo stato dell’arte.
La L. 257 del 1992 (“Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”) ha premiato l’impegno dei cittadini, lavoratori e vittime e i loro familiari. Al termine di una lunga epopea, durata un secolo, finalmente il Parlamento Italiano, con la L. 257 del 1992 ha sancito il divieto di “estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto, prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto” (art. 1.co. 2).
Questo divieto è stato differito di un anno rispetto alla data dell’entrata in vigore della L. 257/92 e prevedeva la possibilità di utilizzo fino al 28.04.1994 oltre che deroghe “per una quantità massima di 800 kg e non oltre il 31.10.2000” (art. 1 co. 2).
Secondo questo cronoprogramma pirandelliano, quella che sembrava essere una norma tranchant, aveva nel suo DNA quella che sarebbe stata la condizione attuale del rischio amianto nel nostro Paese, perpetuando il fallimento del sistema pubblico di prevenzione, innestandosi in un tessuto già marcio per la poca attenzione per la salute nei luoghi di lavoro.
Infatti, il nostro sistema di prevenzione ancorato sul SSN, indebolito dai continui, recenti, tagli, era ed è fragile, come purtroppo anche la vicenda Covid-19 ha dimostrato[6], e quindi il sistema articolato, dettato dalla L. 257/92, per la prevenzione del rischio è fallito.
Solo pochi dei siti contaminati sono stati bonificati, ancora di meno con lo smaltimento dell’amianto, molto con il confinamento e incapsulamento, che sono strumenti solo provvisori di limitazione del rischio.
Poichè anche dosi poco elevate possono essere decisive per l’insorgenza di malattie asbesto correlate, assai invalidanti, e in molti casi mortali, è necessaria la presa d’atto da parte del Governo e del Parlamento della necessità di nuovi strumenti di prevenzione che esaltino quella primaria, piuttosto che quella secondaria e quella terziaria, anche se i sistemi di prevenzione hanno una loro intrinseca circolarità.
Anche la prevenzione secondaria è alle corde nel nostro Paese. Strumenti di sorveglianza sanitaria, pur dovuti e doverosi, anche ai sensi dell’art. 259 del D.L.vo 81/2008 sono stati applicati a macchia di leopardo, anche per la concorrente competenza della legislazione regionale.
Così per la ricerca scientifica, l’Italia è il fanalino di coda in Europa, come rilevato anche dal Prof. Gaetano Veneto[7], e ancor di più per quanto riguarda il mesotelioma[8].
La logica indennitaria e risarcitoria, che per decenni ha animato e sta animando il dibattito sull’amianto deve essere definitivamente superata, per evitare che lo Stato si trasformi in un Caronte del terzo millennio, e che gli indennizzi, molte volte degli spiccioli, servano solo ad acquistare un mazzo di fiori da porre sulla tomba del caro estinto[9].
Tanto è vero che perfino l’emergenza dell’amianto nelle scuole, ospedali, e altri edifici pubblici, attenzionata dal Ministero della Salute con la circolare n. 45 del 1986 che imponeva la bonifica, è stata trascurata, e riproposta in seno ai lavori della Commissione Amianto del Ministro dell’Ambiente[10].
L’equivoco ha origine dalle c.d. soglie, così quella di cui all’art. 254, 1° co., del D.L.vo 81/2008[11].
Questa situazione ha provocato elevate e prolungate esposizioni, sia per il numero delle persone contaminate che per la loro intensità, tant’è che si prevede la fine dell’epidemia non prima dei prossimi 130 anni[12].
Per non parlare del fatto che ci sono ancora Paesi, come la Cina, che fanno largo uso di amianto anche nei prodotti che esportano[13], e ancora per elevate quantità[14], tanto che è fondamentale il bando globale dell’amianto[15].
Purtroppo, per questi motivi l’epidemia andrà avanti ancora per decenni, su base planetaria, coerentemente con l’allarme lanciato dall’OMS, incapace, però, di una imposizione risolutiva, in particolare nei confronti della Cina (che è il vero padrone politico dell’istituzione, attesi i finanziamenti che eroga, anno per anno).
Ci aspetta quindi la sfida verso il futuro, che imponga prima di tutto il bando totale e allo stesso tempo la bonifica e messa in sicurezza di tutti i siti.
III. I danni di amianto e le tutele.
Oltre alla responsabilità di enti pubblici e di pubbliche istituzioni per l’inadempimento degli obblighi di tutela della salute, ovvero per violazione di legge in ordine all’utilizzo dell’amianto e alla violazione dell’obbligo di evitare ogni forma di esposizione, o quantomeno di ridurla al minimo, che costituiscono un ulteriore ambito di indagine, in questa sede, circoscritta al risarcimento dei danni da amianto per esposizioni lavorative, gli obblighi risarcitori, pure fondati sulla responsabilità extracontrattuale, sono circoscritti ai datori di lavoro, ovvero ai committenti, ovvero ai titolari delle posizioni di garanzia, al netto delle prestazioni previdenziali ed assistenziali[16].
IV. I titolari delle posizioni di garanzia.
La tutela della salute e dell’incolumità psicofisica costituisce una delle finalità fondamentali del nostro ordinamento giuridico, ed è estesa anche, e a maggior ragione, agli ambienti lavorativi, presso i quali, tutti gli esseri umani esplicano le loro attività ed attingono dignitosamente anche la fonte di sussistenza, per loro e per le loro famiglie, oltre a contribuire al progresso materiale e spirituale della Nazione (artt. 1, 2, 3, 4, 32, 35, 36, 38 e 41 II co. della Costituzione)[17].
Sul datore di lavoro e su tutti i suoi dirigenti e responsabili, incombe, dunque, un obbligo specifico che è quello di tenersi aggiornati, di rimuovere il rischio alla radice, ovvero di ridurlo in modo tale da evitare ogni lesione di quel bene costituzionalmente protetto, costituito dalla salute, senza il quale tutti gli altri diritti non possono essere esercitati (art. 2087 c.c. e artt. 32, 2, 3, 4, 35, 36 e 41 II co. della Costituzione), con il definitivo superamento della logica dell’indennizzo (art. 38 Cost.)[18].
Proprio in relazione a tale massima tutela accordata dall’ordinamento, il datore di lavoro, i dirigenti e comunque coloro che sono responsabili perché titolari di particolari poteri e prerogative, sono titolari della posizione di garanzia, che ha la sua fonte primaria nella legge (costituzionale ed ordinaria), nel contratto collettivo ed individuale (criterio formale); ovvero sulla situazione sostanziale, ovvero sulla c.d. “funzione”, che impone l’esercizio dei poteri, nel rispetto dei doveri di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) e della salute (art. 32 Cost.).
I due criteri si sintetizzano nella c.d. teoria “mista”, che valorizza la sussistenza del contratto che “ha forza di legge tra le parti” (1372 c.c.), e gli obblighi di protezione che ne discendono (art. 2087 c.c.), con l’imposizione del rispetto delle specifiche regole cautelari, da quelle di cui al DLgs 81/08, titolo IX, capo III, fino all’obbligo nascente dall’art. 2087 c.c. quale norma di chiusura dell’ordinamento.
I datori di lavoro assolvono una funzione di protezione, hanno poteri impeditivi della lesione del bene di cui sono portatori, e per il fatto che hanno “preso in carico” (così sent. Cass., IV Sez. Pen., n. 38991/2010, p. 37) il prestatore d’opera, hanno il dovere giuridico di evitare a costoro ogni pregiudizio alla salute, anche con l’obbligo di modificare gli ambienti lavorativi e di organizzare diversamente le modalità di produzione, per evitare alla fonte la sussistenza del rischio.
La legge pone a loro carico l’adozione di strumenti di prevenzione tecnica e di prevenzione formativa, sanitaria e tecnica, in relazione al caso specifico[19].
V. L’obbligo della massima sicurezza tecnicamente fattibile (art. 2087 c.c.) e non applicabilità del limite delle 100 ff/ll ai fini della sussistenza dell’obbligo risarcitorio.
L’obbligo di tutela della salute impone primariamente la neutralizzazione di tutte le fonti di pericolo e quindi di rischio, la cui concretizzazione porta ad infortuni e a malattie professionali costituite dalle patologie asbesto correlate.
In tale ottica, l’art. 2087 c.c. impone prima di tutto misure preventive e precauzionali e solo in via alternativa e successiva costituisce la fonte per affermare la responsabilità penale (come integrativa dei precetti di cui agli artt. 589 e 590 c.p. piuttosto che di quelli di cui agli artt. 437 e 434 c.p.c.), e quindi il risarcimento dei danni, sia con la costituzione di parte civile nel processo penale, che con autonomi giudizi civili[20].
Pertanto, in tema di superamento di un limite ai fini del riconoscimento dell’origine professionale di una patologia, la Corte di Cassazione con la sentenza della Sezione Lavoro n. 4721 del 09.05.1998 ha chiarito che “da tempo era ben nota l’intrinseca pericolosità delle fibre di amianto … anche indipendentemente dalla concentrazione di fibre per cm3”. E ancora l’obbligo di cautela sussiste “pur quanto le concentrazioni atmosferiche non superino determinati parametri … ma risultino comunque tecnologicamente possibili di ulteriore abbattimento” e la responsabilità sussiste anche nel caso in cui ci siano esposizioni minime, purché ci siano state possibilità di abbattere ulteriormente i livelli espositivi: “in materia di responsabilità civile, sussiste nesso di causalità tra l’attività lavorativa e la patologia … quando il dipendente sia stato esposto all’amianto e non possa essere esclusa l’esistenza di un rischio di un tumore polmonare anche a livelli di esposizione estremamente bassi” (Cass., 14.01.2005, n. 644).
In conclusione, in caso di malattia sussiste responsabilità del datore di lavoro “pur se abbia rispettato i cosiddetti valore limite di esposizione ad amianto, non si sia attenuto al principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile nell’attuazione delle misure di prevenzione, in quanto i valori limite, se da una parte introducono un elemento di maggiore certezza, dall’altro non stabiliscono una precisa di demarcazione tra innocuo e nocivo” (Cass., IV Sez. pen., sentenza 02.07.1999, in Foro Italiano, 2000, II, 260)[21].
Inoltre, rileva anche l’esposizione ambientale e non soltanto personale “ai fini della sussistenza del reato del superamento dei valori limite … rileva l’obiettiva concentrazione delle fibre nell’aria e non le fibre effettivamente respirate dal lavoratore” (Corte di Cassazione, III Sez. pen., 19.03.2004, in Foro italiano, 2005, II, 175)[22].
Si impone, altresì, «un onere preciso al datore di lavoro, l’onere di tenersi aggiornato, di acquisire le esperienze di aziende simili, di individuare, dunque, caso per caso, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, le misure da adottare nel caso concreto» (Cass. Pen., Sez. IV, sent. n. 3567/2000).
Secondo la Cass. Sez. Lav. n. 18626 del 05.08.2013, la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico.
Pertanto, «qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81» (Cass. Civ., Sez. Lav., 14 maggio 2014, n. 10425).
V.1. Le norme che dettano regole cautelari specifiche.
La giurisprudenza, ormai granitica, fonda la responsabilità del datore di lavoro sia sull’art. 2087 c.c., sia sulle regole cautelari specifiche[23].
Sulla base di tale consolidata giurisprudenza, trovano applicazione, in materia di giudizi risarcitori per esposizione ad amianto e insorgenza di malattie professionali, le seguenti norme:
– regio decreto del 14 aprile 1927 n. 530 (agli articoli 10, 16 e 17 conteneva diffuse disposizioni relative alla aerazione dei luoghi di lavoro, soprattutto in presenza di lavorazioni tossiche);
– art. 2087 c.c. con riguardo a questo articolo, la Cassazione si è così espressa: «Secondo (…) costante giurisprudenza (…) l’articolo 2087 c.c., come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore»[24](Cass. 18 novembre 1976, n. 4318, Cass., Sez. Lav., 9 maggio 1998, n. 4721, Cass., Sez. Lav., 23 maggio 2003, n. 8204, Cass., Sez. Lav., 14 gennaio 2005, n. 644);
- artt. 377 e 387 del d.p.r. 27 aprile 1955 n. 547 (norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro);
- l’art. 21 del d.p.r. 19 marzo 1956 n. 303 (obbligo per il datore di lavoro di adottare i provvedimenti atti a impedire o ridurre lo sviluppo e la diffusione delle polveri nell’ambiente di lavoro);
– norme del d.p.r. n. 215 del 24 maggio 1988, attuative delle direttive CEE 83/478 ed 85/610, recanti modifiche alla direttiva 76/769, in tema di restrizioni in materia di immissioni sul mercato e di uso di talune sostanze e preparati pericolosi. L’art.15 della legge 16 aprile 1987, n. 183, confermava il divieto di immissione sul mercato ed uso della crocidolite e dei preparati che la contengono; con lo stesso decreto veniva inoltre sancito il divieto di immissione ed uso di prodotti contenenti altri tipi di anfiboli;
– il D.L.vo 277/91, nel recepire finalmente la direttiva 477/83/CEE, poi trasfuse nel D.L.vo 81/2008. In ogni caso, tenendo conto che le malattie asbesto correlate sono lungolatenti, rileva anche la disciplina in vigore all’epoca delle esposizioni[25].
Tale complesso e complessivo quadro risulta riepilogato, in riferimento alla normativa allora in vigore, dalla stessa Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 4721/1998, le cui posizioni sono state poi recepite e confermate da tutta la giurisprudenza civile e penale (tra le tante, si può richiamare Cassazione, IV Sezione Penale, con la sentenza 01.02.2008, n. 5117; ancora Corte di Cassazione Civile, Sez. Lavoro, n. 10425 del 2014, Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 2251 del 2012; Cassazione, Sezione Lavoro, n. 1477/2014 ed ex multis)[26].
Nel caso dell’amianto, le norme preventive poste a protezione dei lavoratori dall’asbestosi devono, dunque, essere interpretate come volte a scongiurare anche i rischi di insorgenza del tumore polmonare e di altre patologie asbesto correlate. Si tratta, infatti, di misure cautelari tese a difendere lo stesso bene giuridico – la salute – e la cui adozione avrebbe evitato l’insorgenza anche del tumore polmonare, ovvero avrebbe determinato un maggior periodo di latenza e quindi una maggiore aspettativa di vita, anche nel caso in cui la patologia fosse ugualmente insorta, determinando così perciò stesso anche la sussistenza del nesso causale (cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 11 febbraio 2003, n. 20032; Cass. Pen., Sez. IV, 11 luglio 2002, n. 988)[27], con conseguente diritto al risarcimento di tutti i danni, in relazione anche solo all’anticipazione dei tempi di latenza e/o aggravamento[28].
Il fatto stesso che tutte le malattie asbesto correlate, compreso il mesotelioma, rispondono alla legge scientifica universale della causalità generale della teoria multistadio della cancerogenesi, ovvero della dose dipendenza, conferma l’evento e il nesso causale, perché, in tal guisa, è esplicativa della causalità individuale[29].
Questa legge scientifica, attribuita all’autorità di Richard Doll, è esplicativa della causalità individuale, oltre che per il tumore del polmone, anche per lo stesso mesotelioma: tutte le esposizioni rilevano quantomeno per abbreviazione dei tempi di latenza, aggravamento e anticipazione della data della morte, e quindi ciò dimostra che se fossero stati adottati materiali alternativi, ovvero rispettate le regole cautelari, così da evitare, ovvero ridurre l’esposizione, ciò avrebbe evitato l’insorgenza della malattia, ovvero, a tutto voler concedere, l’abbreviazione della latenza e ovvero l’anticipazione della data della morte del paziente[30].
In ogni caso, anche a voler escludere il carattere cogente di tutto il compendio di regole cautelari già citate, in ogni caso il datore di lavoro e/o titolare della posizione di garanzia era gravato degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c.
Infatti la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 5086 del 29.03.2012, ha precisato che sussiste «(…) l’obbligo del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., “anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore assicurato” v. Cass. 23-5-2003 n. 8204; con riguardo ad una esposizione dal 1959 al 1970 v. Cass. 9-5- 1998 n. 4721, dal 1959 al 1971 v. Cass. 14-1-2005 n. 644 e dal 1975 al 1995 v. Cass. 1-2-2008 n. 2491; per un periodo dal 1975, da ultimo, v. anche Cass. 11-7-2011 n. 15156)».
Già il solo adempimento del principio della massima sicurezza tecnicamente possibile, sulla base dell’art. 2087 c.c., avrebbe evitato, o fortemente abbattuto i tempi e i livelli di esposizione, e quindi, proprio sulla base della legge scientifica universale della dose dipendenza, ciò avrebbe comunque inciso, quantomeno sui tempi di latenza, sulla lesività/entità del danno biologico e/o sulla loro letalità, anch’essa in proporzione all’entità delle esposizioni, e poiché deve trovare applicazione il principio dell’equivalenza causale, si conferma il principio della imputabilità dell’evento malattia/morte, ai fini del risarcimento del danno, in relazione alle condotte in contrasto con gli obblighi cautelari, di cui sopra, e perciò stesso con configurabilità dell’inadempimento (responsabilità contrattuale), e dell’illecito (responsabilità extracontrattuale), per i diversi profili (artt. 2050 e 2051 c.c.), ovvero sul presupposto dell’ingiustizia del danno (artt. 2043 e 2059 c.c.), ovvero della responsabilità civile da reato, con riferimento anche alla prevedibilità ed alla evitabilità dell’evento (malattia e/o morte).
VI. Il nesso causale.
Diverse sono le regole probatorie e di giudizio in ordine al nesso causale, che è la vera e propria chiave di volta della problematica connessa all’accertamento di eventuali responsabilità in seguito a malattia e morte da amianto[31].
La responsabilità penale, che è ancorata al principio della tutela dell’innocente, e quindi sul principio dell’‘oltre ogni ragionevole dubbio’[32], e quindi della certezza processuale, che deve essere raggiunta sulla base della elevata probabilità logica e credibilità razionale, anche su base abduttiva (SS.UU. 30328/2002; 581/2008; Cass. Penale, IV Sez., 27.02.2014, n. 9695 e in materia di amianto Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 38991/2010 e 43786/2010), valorizzando tutte le prove compresa quella testimoniale e di assenza di un decorso alternativo, da cui trae conferma la fondatezza dell’ipotesi accusatoria (Corte di Cassazione, IV sezione penale, 12151/2020).
Diversamente, in sede civile, si afferma il principio del ‘più probabile che non’, ovvero della conferma del nesso causale, a condizione che ci sia la probabilità di 50+1 di riconducibilità causale dell’evento alle condotte attive e omissive dei titolari delle posizioni di garanzia.
Il nesso di causalità, in sede civile è confermato se sussiste la «relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio (ispirato alla regola della normalità causale) del “più probabile che non”» (Cass. 16 gennaio 2009, n. 975; SS.UU. 581/2008), anche sulla base dell’aumento del rischio e/o dell’anticipazione della latenza e/o della morte della vittima (equivalenza causale, art. 41 c.p.).
In sede civilistica, invece, il criterio applicabile è quello della “preponderanza dell’evidenza” (o del “più probabile che non”), come affermato pacificamente anche dalla giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. III, 31.03.2016, n. 6222), sulla base della equivalenza causale (Cassazione, sezione lavoro, sentenza 21.09.2016 n. 18503).
Una parte minoritaria della giurisprudenza lega l’evento malattia/morte ad una condotta attiva, di somministrazione continua di polveri e fibre di amianto, capace di provocare patologie fibrotiche e neoplastiche (Cass., IV Sez. Pen., n. 38991/2010).
L’evento, quindi, è direttamente riconducibile all’utilizzo dell’amianto privo di cautele, anche quelle di cui all’art. 2087 c.c., che dovevano essere comunque assunte poiché le lavorazioni dell’amianto dovevano essere considerate insalubri, in relazione a quanto sancito già con il R.D. 442 del 1909 e con l’art. 17 del R.D. 530 del 1927 e ancora per effetto della L. 455/43, anche a voler ammettere che non ci fosse un obbligo di utilizzare materiali non dannosi per la salute umana.
In tale ultima ottica, le patologie asbesto correlate vengono considerate il risultato di una continua somministrazione di fibre di amianto che inducono inizialmente infiammazione, appesantiscono il sistema cardiaco e cardiocircolatorio e che poi alimentano le degenerazioni neoplastiche, fino alla malattia e alla morte, eventi certamente prevedibili e sicuramente evitabili, tenendo conto del compendio del sistema normativo, alla stregua anche della legislazione europea.
La normativa comunitaria (quarto considerando della direttiva n. 477/83/CEE e l’undicesimo della n. 148/2009/CE) ha confermato la legge scientifica dell’assenza di una soglia al di sotto della quale il rischio si annulli, e, per effetto del già richiamato compendio normativo, deve ritenersi sussistente il divieto di esposizione anche prima dell’introduzione dei divieti di cui alla L. 257/1992 (tra le tante Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza n. 4915 del 2012), ragione per la quale, essendo vietata dalla legge ogni esposizione ad amianto a prescindere dai limiti di soglia, permane l’obbligo risarcitorio dei danni anche laddove l’esposizione fosse minima e comunque suscettibile di ulteriore riduzione (Cass., Sez. lav., sentenza n. 4721/1998; Cass., IV Sez. pen., sentenza n. 5117/2007).
L’unico strumento di effettiva tutela della salute umana, rispetto a tale rischio, è evitare ogni forma di esposizione[33] ed è per tale ragione che, in relazione alla conoscenza e/o conoscibilità delle capacità lesive dell’amianto per la salute umana, anche la legittimità del suo utilizzo, non rendeva tale l’esposizione dei lavoratori, che dovevano essere preservati nella loro incolumità[34].
Il giudizio in ordine alla qualificazione dei fatti e al nesso causale deve essere formulato sulla verifica dell’avvenuta adozione o meno di tutte le regole cautelari, imposte dalla legge e dagli usi, per evitare ogni forma espositiva, ovvero per ridurla al minimo, essendo risaputa la lesività delle fibre di amianto per la salute umana già all’inizio del secolo scorso e gli effetti cancerogeni già all’inizio degli anni ’30 o, al più, agli inizi degli anni ’40[35].
La maggior parte della giurisprudenza riconduce l’evento ad una condotta omissiva, solo in casi isolati invece si ritiene che rilevi la condotta attiva e cioè quella di aver utilizzato amianto e materiali che lo contenessero e di averne quindi somministrato le fibre, come una sorta di avvelenamento quotidiano ai dipendenti.
Ciò avrebbe quale logica conseguenza la conferma del nesso causale legato all’utilizzo dei materiali cancerogeni, e quindi l’obbligo risarcitorio.
Infatti, la responsabilità discende dal fatto che dovessero essere utilizzati materiali non dannosi per la salute.
Contrariamente, laddove si accolgano le tesi della giurisprudenza e della dottrina maggioritaria, e quindi rilevi la condotta omissiva, trova applicazione l’equivalenza di cui all’art. 40, II co., c.p.: il titolare della posizione di garanzia risponde per aver violato le regole cautelari, perché aveva l’obbligo di evitare l’evento, e lo avrebbe evitato rispettando le norme che imponevano regole cautelari finalizzate a proteggere il bene giuridico che è risultato leso.
VI.1. Gli oneri probatori a carico del datore di lavoro.
Il datore di lavoro, ove il lavoratore malato o i famigliari di quello deceduto dimostrino l’esposizione e il mancato rispetto delle regole cautelari, in applicazione della teoria multistadio della cancerogenesi e della loro rilevanza, al fine di evitare la condanna al risarcimento di tutti i danni in sede civilistica, dovrà dimostrare di aver ottemperato a tutte le regole cautelari.
Costituisce consolidato orientamento giurisprudenziale quello a mente del quale “qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l’esposizione della sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la modifica dell’attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie” (Sul punto: Cass. Civ., Sez. Lavoro, 14.05.2014, n. 10425).
La violazione di tutte le regole precauzionali, anche quelle minime, impone al datore di lavoro di dimostrare che la patologia è insorta esclusivamente per altre cause (cfr. Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 644/2005, citata).
Ciò perché tutte le esposizioni, anche quelle inferiori per intensità e durata, hanno comunque avuto un ruolo nell’innesco, ovvero nell’accelerazione delle fasi della induzione, iniziazione, promozione e progressione, e quindi una diminuzione dei suoi tempi e con essa di quelli di periodo di vita sana, ovvero di sopravvivenza del paziente (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 5086 del 29.03.2012)[36].
VI.2. Sulla legge scientifica di copertura.
La partita del risarcimento dei danni si gioca prevalentemente sul terreno della causalità materiale, e nell’ambito delle regole proprie di quella omissiva, rispetto alla quale assume decisiva rilevanza la sussistenza o meno di una legge scientifica che possa condurre a quel giudizio di certezza processuale (per quanto riguarda il giudizio penale, ovvero il giudizio civile esercitato nel giudizio penale), ovvero di maggiore probabilità superiore al 50% + 1, propria del giudizio civile, esercitata nella propria sede, ordinaria e lavoristica (responsabilità contrattuale, e in subordine extracontrattuale).
In ordine alle patologie fibrotiche (asbestosi, placche pleuriche e ispessimenti pleurici) sussiste unanimità scientifica sulla dose rilevanza, riconducibile sempre e soltanto ad esposizioni professionali, le uniche che possono raggiungere una intensità tale da poterle provocare.
Evidente quindi che, l’applicazione delle regole cautelari ed il loro rispetto avrebbero avuto una sicura efficacia.
Diversamente accade per le patologie neoplastiche, che possono insorgere anche a dosi più basse, rispetto alle quali le difese dei datori di lavoro hanno sempre sostenuto l’inefficacia delle misure cautelari e quindi la non evitabilità dell’evento e dunque l’assenza di responsabilità e quindi di obbligo risarcitorio.
Infatti è il principio stesso della rilevanza della dose cumulativa e della lesività di tutte le esposizioni, a prescindere dalla soglia, a confermare che, sempre e in ogni caso, coloro che provocano l’esposizione sono responsabili in solido, perché nessuna esposizione è ininfluente[37].
I consulenti delle aziende, ovvero i loro dirigenti, dinnanzi a quella che è una vera e propria strage di lavoratori e di familiari, specialmente per i casi di mesotelioma, hanno sostenuto che tale tali patologie fossero causate da un’unica, singola, fibra, sarebbe stato e sarebbe impossibile evitare l’evento, per inefficacia degli strumenti preventivi e per il fatto che comunque il tumore sarebbe sicuramente insorto per la presenza ubiquitaria dell’amianto anche nei luoghi di vita e perché, in ogni caso, non potrebbe essere individuato il responsabile, ovvero discriminata la fonte dell’esposizione rispetto a quella extralavorativa (Cass., IV Sez. pen., sentenza n. 38991/2010; Cass., IV Sez. pen., sentenza n. 43786/2010 ed altre).
Per le altre neoplasie, invece, i datori di lavoro hanno fatto leva sul carattere multifattoriale di queste patologie, e quindi sulla presunta impossibilità di poter stabilire, specialmente in sede penale, quale fosse rispetto ad ogni singolo caso l’agente eziologico, e soprattutto alla impossibilità di ricondurlo alle attività lavorative e quindi l’assenza del nesso causale (Cass., IV Sez. pen., sentenza n. 43786/2010 ed altre).
Se questi articolati difensivi possono avere una qualche logica in sede penale (Cass., IV^ sez. pen., 43786/2010), in sede civile, sulla base della regola probatoria e di giudizio differente, le richieste risarcitorie debbono trovare accoglimento.
Infatti, la legge scientifica della dose dipendenza è ormai universale, e quindi poiché rilevano tutte le esposizioni, anche se ci fossero più fonti professionali e anche extraprofessionali, comunque sussiste una responsabilità in solido.
VI.2.a. Il mesotelioma.
L’associazione tra esposizione ad amianto e mesotelioma[38] maligno è pari al 90%, vicina al 100% tra i lavoratori[39]e«l’aumento del rischio è proporzionale alla dose cumulativa; anche esposizioni di breve durata e intensità possono essere associate all’insorgenza di un mesotelioma»[40] (Enzo Merler, Paolo Girardi, Chiara Panato e Vittoria Bressan[41]).
Sulla base della legge scientifica universale della causalità generale, esplicativa della causalità individuale, si trae la conclusione che in caso di dimostrata esposizione ad amianto, sia su basi tecniche (amplius capo VI.3), ovvero con segni patognomici, prove biologiche legate alla rilevazione strumentale di placche pleuriche e ispessimenti pleurici, e su base epidemiologica, si può raggiungere la certezza processuale, ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, ai fini della responsabilità penale, ovvero alla elevata probabilità (50+1 in sede civile), ai fini dell’obbligo di ottenere la condanna al risarcimento del danno, oltre ai profili previdenziali (INAIL[42] e causa di servizio).
L’applicazione di tali regole esplicative permette di confermare il decorso causale riconducibile all’esposizione non cautelata a polveri e fibre di amianto (accompagnata da rilevazioni epidemiologiche e dal carattere patognomico delle placche pleuriche e degli ispessimenti pleurici), tanto più nel caso in cui possa essere escluso un decorso alternativo.
Il Consensus meetings di Lille e di Berlino ha permesso di confermare che l’insorgenza del mesotelioma, il rischio e i tempi di latenza sono legati alle “dosi cumulative, anche se non è possibile stabilire quale sia la dose cumulativa sufficiente”.
Nel corso della Seconda Conferenza di Consenso Italiana sul Mesotelioma Pleurico (Torino, 24-25 novembre 2011[43]), gli oncologi sono giunti all’unanime consenso della assenza di fondamento scientifico della c.d. teoria della “trigger dose”[44] che peraltro non poteva essere ricondotta all’autorità del Prof. Selikoff e che, come per tutte le altre patologie neoplastiche, anche per il mesotelioma trova applicazione la teoria multistadio della cancerogenesi: «Le fibre di amianto (AF) agiscono attraverso meccanismi diversi. I principali fattori che condizionano il rischio per il Mesotelioma Maligno comprendono il tipo di fibra, le dimensioni, il livello di esposizione ed il tempo. La nostra revisione sistematica della letteratura ha mostrato che il rischio di MM aumentava con la dose cumulativa e con il carico polmonare di fibre, in accordo con le recensioni precedenti».
Queste conclusioni sono state confermate in occasione della Terza Conferenza di Consenso Italiana sul mesotelioma maligno della Pleura (Bari, 29-30 gennaio 2015), come è confermato dagli atti “III Italian Consensus Conference on Malignant Mesothelioma of the Pleura. Epidemiology, Public Health and Occupational Medicine related issues”, pubblicati in Med Lav 2015; 106, 5: 000-000 – primo numero del 2015.
Queste conclusioni sono coerenti con le risultanze dell’ultima monografia IARC in materia di amianto (Volume 100/C delle Monografie – 2012) che, nel capitolo dedicato alla carcinogenesi da asbesto, conferma entrambi i meccanismi patogenetici che sono alla base della cancerogenesi multistadio.
La giurisprudenza di legittimità ha precisato che «La latenza diminuisce con l’incremento dell’esposizione. Si tratta di una legge scientifica sufficientemente radicata nella comunità scientifica e di carattere universale. Non esiste una esposizione irrilevante. Studi accreditati indicano che la latenza minima è di circa 15 anni e di 32 anni quella media. Inoltre, l’esposizione lavorativa implica una latenza più breve (…) Sono rilevanti non solo le esposizioni iniziali che conducono inizialmente nel processo cancerogenetico, ma rilevano pure quelle successive fino all’induzione della patologia, dotate di effetto acceleratore, appunto, e di abbreviazione, quindi, della latenza. Interessa inoltre comprendere se, eventualmente, si tratti di legge universale o probabilistica. Occorre rammentare che questa Corte ha avuto modo di fornire indicazioni metodologiche proprio con riguardo a situazioni del genere di quella in esame (Sez IV, n. 18933 del 27/02/2014, Rv. 262139)” (pag. 164 della impugnata sentenza)» (Corte di Cassazione, IV^ sezione penale, sentenza n. 3615/2016[45]).
La concausa, anche per sola abbreviazione dei tempi di latenza, è sufficiente ai fini della configurabilità dell’evento e della conferma del nesso causale, anche nel caso in cui ci fossero eventuali esposizioni extraprofessionali (art. 41 c.p.)[46].
La c.d. teoria della “trigger dose” è risultata priva di fondamento, anche in sede penale (v. Cass. Sez. IV 988/2002; Cass. Sez IV n. 22165/2008; sez IV 33311/12 ed ex multis[47]) e, anche nel caso di più responsabili, si è giunti comunque ad affermare la responsabilità di tutti, e il conseguente obbligo di risarcimento dei danni in solido (Corte di Cassazione, IV Sezione Penale n°24997/12 ed ex multis)[48].
In sostanza la Corte di Cassazione, IV Sez. Pen., con la sentenza 8 maggio 2014, n. 18933, ha seppellito il presunto fondamento della «tesi della dose killer [che] è espressione di un vecchio e superato modello di cancerogenesi[49]», e pertanto “non esiste una esposizione irrilevante” (Corte di Cassazione, IV Sezione penale, n. 3615/2016) e quindi, laddove c’è stata esposizione ad amianto, lì c’è la responsabilità e dunque l’obbligo di risarcimento dei danni, anche nel caso di plurime esposizioni, professionali ed extraprofessionali che siano (art. 41 c.p.).
VI.2.b. Tumore del polmone dose dipendenza e sinergia con il fumo di sigaretta.
L’inalazione delle fibre di amianto induce tumore al polmone, in sinergia con il fumo di sigaretta. Questa neoplasia è multifattoriale, come lo sono il tumore alla laringe, all’ovaio e al colon, per fermarsi a quelle individuate dalla monografia IARC, e in questo caso le fibre di amianto agiscono in sinergia, ovvero potenziano gli effetti anche degli altri cancerogeni e di eventuali esposizioni extraprofessionali, compresi gli altri agenti causali, tra i quali il fumo di sigaretta.
Per tali motivi, anche in questi casi, si conferma la rilevanza della legge scientifica della dose dipendenza, pur nella non monofattorialità della malattia, e quindi tenendo conto che anche eventuali esposizioni extralavorative, comprese quelle del fumo di sigaretta, determina la conferma del nesso di causalità, anche quando le esposizioni ad amianto sono assunte a bassa dose, sulla base dell’art. 41 c.p., e tenendo conto dei principi di cui a Cassazione, sezione lavoro, 644/2005, ed ex multis.
Nel Consensus Report di Helsinki[50] del 1997 “Si stima che il rischio relativo di cancro del polmone aumenti dal 0.5 al 4% per ogni fibra per centimetro cubo per anno (fibre-anno) di esposizione cumulativa. Usando il limite superiore di questo range, si stima che una esposizione cumulativa di 25 fibre/anno incrementi il rischio di cancro del polmone di 2 volte. Casi clinici di asbestosi possono manifestarsi per esposizioni cumulative paragonabili”, senza che ci sia alcuna soglia di esposizione cumulativa a polveri e fibre di amianto al di sotto della quale può ritenersi escluso il rischio di insorgenza di tale neoplasia.
La dose cumulativa pari a 25 fibre/anno ha una rilevanza solo ai fini statistici di insorgenza di un certo numero di casi di cancro del polmone (due volte superiore al dato atteso di una popolazione non esposta), e questo dato non fa altro che confermare come la teoria multistadio della cancerogenesi costituisca il modello esplicativo sul nesso causale.
Non è necessaria l’asbestosi per poter affermare la riconducibilità dei tumori polmonari all’esposizione ad amianto (Egilman e Reinert).
La riconducibilità del tumore polmonare all’esposizione ad amianto è confermata anche dagli ultimi e più recenti studi[51].
Boffetta nel 1998, nel suo articolo sulla stima quantitativa del rischio da esposizione ad amianto, ha evidenziato come il modello più diffusamente accettato nella comunità scientifica fosse quello dose-risposta di tipo lineare senza soglia, ma afferma che anche modelli alternativi con una soglia a livelli bassi di esposizione possono essere accettati, non essendo disponibili dati relativi ad esposizioni cumulative al di sotto di 1fibra/ml. Riguardo al rapporto tra fibrosi polmonare e tumore del polmone, anche Foà e Colosio (1997) confermano le conclusioni alle quali sono giunti in maniera motivata Egilman e Reinert nel 1995, secondo i quali “il tumore del polmone può essere conseguente ad esposizione ad amianto in assenza di asbéstosi radiologicamente o istologicamente evidenziabile”, qualora il rapporto causale venga avvalorato sulla base della congruità dell’esposizione e del periodo di latenza.
Le tesi già sostenute da Richard Doll circa il carattere universale della legge scientifica definita “Teoria multistadio della cancerogenesi” (‘Mortality from lung cancer in asbestos workers’ – 1955[52]), hanno trovato unanime e definitiva conferma in tutti i lavori scientifici, unitamente al carattere di azione sinergica indotta dagli altri cancerogeni.
Il Ministero della Salute[53] ha confermato che c’è un aumento dell’insorgenza di neoplasie polmonari fino a 5 volte nel caso di esposizione ad amianto, che si moltiplica a 50 volte nel caso di esposizione sinergica ad amianto e a fumo di sigaretta (coerentemente con i criteri di Helsinki) e chiarisce che: “La presenza di asbestosi non è un requisito indispensabile per il tumore polmonare asbesto-correlato e, secondo i criteri diagnostici di Helsinki, non è necessario il riscontro radiologico o bioptico di asbestosi per attribuire all’asbesto un ruolo centrale nell’insorgenza del tumore polmonare”.
VI.2.c. Il tumore al colon.
L’agenzia IARC nella sua ultima monografia (IARC 2012. Asbestos. Actinolite, amosite, anthophyllite, chrysotile, crocidolite, tremolite. IARC Monogr Evaluation Carcinog Risk Chem Man, Vol. 100C), fa riferimento specifico all’aumentata incidenza di tumore del grosso intestino ed in generale dei tumori gastrointestinali tra coloro che sono stati esposti professionalmente a polveri e fibre di amianto.
Ronald E. Gordon ed altri (Carcinoma of the colon in asbestos-exposed workers: analysis of asbestos content in colon tissue), hanno premesso che precedenti lavori scientifici avevano consentito di appurare una più alta incidenza di decessi per tumore al colon tra coloro che erano stati esposti ad amianto [Selikoff et al., 1979[54]; Miller, 1978; Puntoni et al., 1979; Newhouse e Berry, 1979;Hilt et al., 1985; Ehrlich et al., 1985; Frumkin and Berlin, 1988].
Gli esami al microscopio elettronico ed ottico di tessuti di carcinomi al colon e al mesenterio in lavoratori esposti ad amianto hanno confermato la presenza di corpi di asbesto nei tessuti [Ehrlich et al., 1985; Kobayashi et al., 1987]. Gli studi di Ronald E. Gordon hanno permesso di confermare tale presenza di fibre e corpi di amianto nei tessuti delle neoplasie al colon di coloro che sono stati esposti ad amianto.
Il Gruppo di Lavoro di esperti IARC, che si è riunito a Lione dal 17 al 24 marzo 2009, ha concluso che sussiste “una associazione positiva tra esposizione ad amianto e cancro del colon retto, basata su risultati abbastanza consistenti di studi di coorte occupazionali, oltre all’evidenza di relazioni positive esposizione-risposta tra esposizione cumulativa ad amianto e cancro del colon retto riportata costantemente nei più dettagliati studi di coorte” (McDonald et al., 1980; Albin et al., 1990; Berry et al., 2000; Aliyu et al., 2005). La conclusione è stata ulteriormente supportata dai risultati di quattro grosse e ben strutturate meta analisi (Frumkin & Berlin 1988; Homa et al., 1994; IOM, 2006; Gamble, 2008).
La direttiva 2009/148/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 30 novembre 2009 “sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto durante il lavoro”, all’allegato 1 “Raccomandazioni pratiche per l’accertamento clinico dei lavoratori, di cui all’articolo 18, paragrafo 2, secondo comma” recita: “In base alle conoscenze di cui si dispone attualmente, l’esposizione alle fibre libere di amianto può provocare le seguenti affezioni: asbestosi, mesotelioma, cancro del polmone, cancro gastrointestinale“.
Il Governo italiano, ne il Piano Nazionale Amianto, approvato e pubblicato nel marzo 2013, ha previsto che “prioritariamente vanno indagate le patologie correlate ad esposizione ad amianto, così come elencate nella monografia n. 100 della IARC e classificate nei gruppi I e II: tumore del polmone, della laringe, dell’ovaio, del colon retto, dell’esofago, dello stomaco”.
Un successivo studio prospettico di popolazione esposta in modo prolungato ad amianto ha dimostrato una più alta incidenza dei casi di cancro al colon, totale e distale, e del cancro rettale (Offermans NSM e collaboratori (Occupational asbestos exposure and risk of esophageal, gastric and colorectal cancer in the prospective Netherlands, Cohort Study (Int. J. Cancer: 00, 00–00 (2014) VC 2014 UICC).
L’INAIL ha aggiornato la lista II delle malattie professionali[55] e vi ha incluso il tumore del colon[56]. La giurisprudenza di merito (Tribunale di Velletri, Sezione Lavoro, con sentenza n. 603/2015 e n. 1501/2015; Tribunale di Grosseto, Sezione Lavoro, sentenza n. 123/2020), ha riconosciuto tra le noxae patogene del tumore al colon anche l’amianto e per questo ha condannato l’INAIL alla costituzione della rendita in favore di due lavoratori già dichiarati esposti ad amianto con precedenti pronunce giudiziarie con le quali l’INPS era stato condannato a rivalutare la loro posizione contributiva ex art. 13, comma 8, Legge 257/92.
Anche la giurisprudenza di legittimità ha recepito queste leggi scientifiche e ha quindi rigettato diversi ricorsi INAIL, con i quali erano state impugnate le sentenze delle Corti territoriali che avevano riconosciuto il diritto alle prestazioni previdenziali per effetto dell’insorgenza di tale patologia (Cass. civ., Sez. lavoro, Ord. n. 7313, del 14/03/2019; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord. n. 3975 del 19/02/2018; Cass. civ., Sez. lavoro, Sent. n. 10430, del 27/04/2017; Corte dei Conti Lazio, Sez. giurisdiz., Sent. n. 270 del 19/05/2015).
VI.2.d. Sul tumore alla laringe e alla faringe.
Sulla base delle risultanze dell’ultima monografia IARC in materia di amianto[57], il tumore alla laringe deve essere considerato a pieno titolo riconducibile all’esposizione ad amianto.
L’INAIL ha quindi integrato, nel 2014, la Lista I, quella relativa alle patologie di origine professionale certa, e vi ha inserito il tumore alla laringe, al pari del tumore all’ovaio, di cui è stata riconosciuta l’eziologia professionale (Corte d’Appello Genova, Sez. lavoro, Sent., 23/10/2020; Corte d’Appello Brescia, Sez. lavoro, Sent., 19/08/2020; Tribunale Brescia, Sez. lavoro, Sent., 07/10/2019; Tribunale Ivrea, Sent., 09/01/2019; Corte dei Conti Umbria, Sez. giurisdiz., Sent. n. 84 del 08/11/2018; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord. n. 28454 del 07/11/2018; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., n. 4347 del 22/02/2018; Cass. civ., Sez. lavoro, Sent. n. 5704 del 07/03/2017; Corte dei Conti Lazio, Sez. giurisdiz., Sent. n. 270 del 19/05/2015; Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord. n. 926 del 21/01/2015; Cass., 26 marzo 2015, n. 6105; Cass., 11 novembre 2014, n. 23990; Cass. 19 giugno 2014, n. 13954; Corte dei Conti Emilia-Romagna, Sez. giurisdiz., Sent. n. 91 del 03/07/2013).
Queste conclusioni sono scientificamente condivisibili, sulla base della letteratura scientifica che ricollega all’esposizione ad amianto anche tutte le altre neoplasie del tratto gastro-intestinale.
Nel rapporto Eurogip[58] (2006) si evidenzia come il tumore alla laringe sia stato riconosciuto come asbesto correlato in 237 casi in Germania per il periodo dal 1997 al 2012, 15 casi in Danimarca per il periodo dal 1991 al 2003, altri 11 casi in Francia dal 1994 al 2002, e in Italia soltanto tre casi nel 2002, e pochi altri negli anni successivi.
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 5704 del 07.03.2017, ha cassato la sentenza della Corte di Appello di Venezia che aveva negato l’origine professionale del tumore alla laringe di un lavoratore esposto ad amianto assumendo che egli avesse l’abitudine voluttuaria al fumo di tabacco. Nel corpo motivazionale della sentenza viene richiamata la consolidata giurisprudenza di legittimità che, in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, haapplicato la regola di cui all’art. 41 c.p., “per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, per il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento” salvo l’intervento di un fattore extralavorativochepossa ritenersi causa esclusiva dell’infermità.
Una relazione positiva è stata riscontrata tra l’esposizione ad asbesto ed il tumore della faringe sulla base dei risultati di una serie di studi di coorte condotti su popolazioni esposte professionalmente all’amianto (Selikoff & Seidman, 1991; Sluis-Cremer et al., 1992; Reid et al., 2004; Pira et al., 2005).
Nello stesso rapporto Eurogip, si fa riferimento soltanto a due casi di tumore alla faringe, riconosciuti in Francia, dal 1994 al 2002.
VI.3. Sulla rilevanza degli accertamenti INAIL.
Il riconoscimento dell’origine professionale e la liquidazione della rendita, diretta e/o di reversibilità, ovvero l’indennizzo del danno biologico, sul presupposto dell’accertamento tecnico della sussistenza del rischio e della valutazione medico-legale, costituiscono elementi indiziari sui quali si può fondare il giudizio di condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni.
In più, in caso di patologie asbesto-correlate, viene erogata anche la prestazione aggiuntiva del Fondo Vittime Amianto (art. 1, commi 241/246, Legge 244/07), e deve essere rilasciata la certificazione di esposizione ad amianto ex art. 13, comma 7, Legge 257/92, con l’indicazione dei relativi periodi, luoghi e mansioni lavorative, a fronte di accertamenti tecnici del CON.T.A.R.P. – Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione.
L’organo tecnico dell’INAIL ha infatti elaborato una banca dati (Amyant INAIL), nella quale risultano registrati i livelli di esposizione per ogni singola attività di tutte le mansioni nei distinti comparti lavorativi. Applicando questi dati, con i tempi di svolgimento delle diverse attività, con l’algoritmo dell’ente tedesco Berufsgenossenschaften, si giunge a determinare il livello di esposizione a polveri e fibre di amianto, che permette il rilascio della certificazione di esposizione.
La legge scientifica che l’INAIL ha maturato dall’ente tedesco, presuppone l’utilizzo della formula: E= Σ(cᵢ * hᵢ)/hanno (dove: E= esposizione media nel periodo preso in esame; cᵢ= esposizione derivante dalle singole attività; hᵢ= durata in ore delle singole attività; hanno= numero di ore lavorabili nel periodo preso in esame), che permette di poter calcolare i livelli espositivi su base presuntiva. Infatti, si applica ad una base temporale in rapporto alle mansioni e i livelli espositivi in casi analoghi. Quindi, assumendo l’ipotesi: – 30 giorni (lavorativi) di ferie (pari a 42 giorni calendariali) e 5 giorni lavorativi la settimana, da cui risultano 365 – 42 – 2×52 = 219 giorni lavorativi annui; – assumendo quanto indicato in [S], ovvero 200 ore massime di servizio durante 30 giorni consecutivi, risultano (219/30)*200=1460 ore di servizio annue; – periodo di tempo da considerare.
La Corte di Cassazione Civile, sezione lavoro, con la sentenza del 31.03.2011, n. 7495 (conforme tutta la giurisprudenza successiva, tra cui Cassazione Civile, Sez. 6- L, 26 febbraio 2015, n. 3957), e con le successive uniformi decisioni, ha stabilito che l’unica legge scientifica per formulare il giudizio tecnico è quella elaborata dall’INAIL, attraverso l’individuazione dei “livelli di concentrazione di fibre di amianto per tipo di attività, utilizzando a tale fine quelli reperibili presso la banca dati Amyant presso INAIL”.
Ne discende: «… le certificazioni INAIL (…) possono assumere rilievo ai fini di concorrere ad integrare la prova circa l’esposizione, questa Corte, con giurisprudenza consolidata, ha affermato (cfr., fra le altre, Cass. n. 23990 del 2014, n. 23207 del 2014, Cass. n. 14770 del 2008; Cass. n. 13361 del 2011) …» (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 5174 del 2015[59]).
Così anche: Cassazione, sezione lavoro, 15165/2019; Cassazione, sezione lavoro, 15651/2019 e Cassazione, sezione lavoro 16869/2020.
VI.4. I criteri per la conferma del nesso causale in sede civilistico-risarcitoria.
A prescindere dalla configurabilità o meno della responsabilità penale, ovvero anche nel caso in cui l’imputato fosse stato assolto, in sede civile, nel rispetto dell’autonomia dei due profili della giurisdizione, e a maggior ragione della diversità della regola probatoria e di giudizio, che dall ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, passa al ‘più probabile che non’, dimostrato l’evento e perciò stesso, con tale regola di minor rigore, il nesso causale, si confermano i presupposti per la responsabilità civile per inadempimento contrattuale (artt. 1218, 1223 e 1453 c.c., in combinato disposto con l’art. 2087 c.c.), sia extracontrattuale (art. 2050 c.c. e/o art. 2051 c.c.).
In sede civilistica, per confermare il nesso causale è sufficiente l’aumento del rischio (cfr. Cass., Sez. Lav., 12.05.2004, n. 9057; Cass., Sez. Lav., 11.07.2011, n. 15156 e Cass., Sez. Lav., 26.10.2012, n. 18472) e non dell’evento (Cfr. Cass., Sez. Lav., 09.05.1998, n. 4721; Cass., Sez. Lav., 23.05.2003, n. 8204; Cass., Sez. Lav., 19.08.2003, n. 12138), e in ogni caso la probabilità qualificata[60] (cfr. Cass., Sez. Lav., 26.06.2009, n. 15078; Cass., Sez. Lav., 12.08.2009, n. 18246 e Cass., Sez. Lav., 29.03.2012, n. 5086); ovvero del 50% +1 (cioè la regola del “più probabile che non”[61] – cfr. Cass., Sez. Lav., 08.10.2012, n. 17092 e Cass., Sez. Lav., 08.10.2012, n. 17172), sul presupposto dell’equivalenza causale (Cassazione civile, sez. III, 15 gennaio 2003, n. 484; Cassazione Civile, Sez. Lav., 16 febbraio 2012, n. 2251[62]; e ancora Cass., Sez. Lav., 26.06.2009, n. 15078; Cassazione, Sezione Lavoro, n. 5174/2015[63]).
Quindi, anche sulla base dei soli dati epidemiologici, si può giungere alla “conclusione probabilistica” (Cass., Sez. Lav., 12.05.2004, n. 9057, in Riv. giur. lav., 2005, 199; conf. Cass., Sez. Lav., 29.09.2000, n. 12909, in Giust. civ. Mass., 2000, 2019), sulla base del fatto che tutte le esposizioni ad amianto, anche a presunta ritenuta bassa dose, hanno un ruolo eziologico, e sulla base degli oneri pregnanti a carico del datore di lavoro, ovvero dei titolari delle posizioni di garanzia (Cass., Sez. Lav., n. 644/2005[64]).
La rilevanza delle esposizioni, ai fini della formulazione del giudizio sul nesso causale, oltre che evidentemente ai fini della sussistenza dell’inadempimento dell’obbligo di sicurezza, prima di tutto di natura contrattuale, e poi anche ai fini di una responsabilità civile extracontrattuale, non presuppone il superamento dei limiti di soglia (cfr. Cass., Sez. Lav., 23.05.2003, n. 8204 e Cass., Sez. Lav., 14.01.2005, n. 644) perché ciò che rileva è l’obbligo a carico del datore di lavoro di evitare ogni esposizione e quindi di dimostrare di aver adempiuto i suoi obblighi, ovvero che l’evento è riconducibile ad un decorso alternativo (Cass., Sez. Lav., 18.05.2011, n. 10935; in sede penale, Corte di Cassazione, IV Sez., sentenza n. 988/2003; ancora Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza n. 33311/2012), e comunque evitabile per effetto dell’adempimento delle regole cautelari, anche di comune prudenza (Cass., Sez. Lav., 14.01.2005, n. 644).
Nel passaggio dalla causalità generale a quella individuale, il nesso risulta confermato in sede civilistica (e anche in sede penalistica) tutte quelle volte in cui risulta altamente probabile che l’esposizione professionale abbia quantomeno aumentato il rischio di insorgenza e/o anticipato i tempi di latenza e/o aggravato il decorso della patologia (Cass., IV Sez. pen., 09.05.2003, n. 37432, in Dir. prat. lav., 2003, 2758 e in Foro it., 2004, I, 69).
Sulla base dell’art. 41 c.p., che esprime il “principio dell’equivalenza causale”, è sufficiente anche la concausa (Cass., IV Sez. Pen., 01.03.2005, n. 7630, in Dir. prat. lav., 2005, 1513; conf. Cass., Sez. Lav., 09.09.2005, n. 17959, in Riv. giur. lav., 2006, 359), perché più cancerogeni «costituiscono sinergie» (Cass., IV Sez. Pen., 02.07.1999, in Foro it., 2000, II, 260; Cass., IV Sez. Pen., 11.07.2002, ivi, 2003, II, 324; Cass., IV Sez. Pen., 14.01.2003, n. 988, in Dir. prat. lav., 2003, 1057) in grado di potenziare anche gli effetti dell’esposizione lavorativa al minerale.
Infatti, come affermato dalla Cassazione, l’art. 41 c.p. contiene una regola «per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso, in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (v. Cass. 9-9-2005 n. 17959, Cass. 3-5-2003 n. 6722)»[65] (Tra le tante, ancora, Cassazione Civile, 24.01.2014, n. 1477; Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 17172/12; Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 17334/12).
Tutte le esposizioni, quindi, sono rilevanti, e a maggior ragione lo è quella per cui è causa perché ha quantomeno abbreviato i tempi di latenza e quindi di sopravvivenza della vittima; detta esposizione, inoltre, integra l’evento e il nesso causale, tanto più in sede civile, ove non trova applicazione la regola propria del giudizio penale della assoluta certezza (Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con la sentenza 1477/2014, che richiama Corte di Cassazione, Sezione lavoro, n. 2251 del 2012[66] ed ex multis) e perché ogni ulteriore esposizione che aumenti il rischio e abbrevi i tempi di latenza rileva ai fini dell’affermazione del nesso causale (Cass., IV Sez. pen., sentenza n. 988/03 ed ex multis).
VI.5. Quanto al giudizio controfattuale.
Sul piano logico, ove si tenga conto della sola causalità omissiva, rileva quanto oggetto di verifica controfattuale: occorre sostituire alla condotta effettivamente posta in essere quella doverosa, imposta dalle regole cautelari; nel caso in cui l’adozione di queste regole avesse scongiurato l’insorgenza della patologia ovvero l’evento, evidentemente il nesso causale trova conferma, diversamente lo si esclude laddove l’evento si sarebbe comunque verificato.
In relazione alla sussistenza della legge scientifica universale della dose cumulativa, risulta confermato che il rispetto delle regole cautelari sarebbe stato efficace per evitare l’evento, che deve essere considerato tale anche per effetto della semplice abbreviazione dei tempi di latenza.
Quindi, se alla condotta dei titolari delle posizioni di garanzia viene sostituita quella doverosa lecita, l’esposizione ad amianto sarebbe stata evitata o fortemente ridotta e la singola patologia non si sarebbe manifestata, ovvero lo sarebbe stata in tempi significativamente successivi, e ciò avrebbe evitato l’evento.
Quindi, il nesso causale è confermato.
VII. La natura giuridica della responsabilità.
Sul titolare della posizione di garanzia, datore di lavoro, amministratore o semplicemente titolare dell’attività imprenditoriale, che ha utilizzato amianto o materiali che lo contenevano, grava l’obbligo di risarcimento di tutti i danni subiti per effetto dell’esposizione lavorativa, sia quelli della vittima primaria sia quelli dei familiari, prima di tutto a titolo di responsabilità contrattuale (artt. 1218, 1223 e 1453 c.c., e/o 2087 c.c.) e, poi, in via alternativa, anche extracontrattuale, sia a titolo di responsabilità per lo svolgimento di attività pericolose (art. 2050 c.c.), sia per inadempimento degli obblighi di custodia (art. 2051 c.c.), sia per violazione dell’obbligo di evitare danni ingiusti (artt. 2043 e 2059 c.c.) sia per responsabilità civile da reato (ex artt. 589 c.p. e/o 590 c.p. etc., in combinato disposto con le norme di cui agli artt. 185 c.p. e 2043 e 2059 c.c.), diretta e vicaria (1228 e 2049 c.c.).
VII.1. La responsabilità contrattuale.
La responsabilità del datore di lavoro è, prima di tutto, «di natura contrattuale, per cui “ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo” (v. Cass. 17-2-2009 n. 3788, Cass. 17-2-2009 n. 3786, Cass. 7-3-2006 n. 4840, Cass. 24-7-2006 n. 16881, Cass. 6-7-2002 n. 9856, Cass. 18-2-2000 n. 1886).In sostanza “la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., la quale impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori” (v.fra le altre Cass. 19-4-2003 n. 6377, Cass. 1-10-2003 n. 16645)”.
VII.1. Sull’onere della prova.
Il datore di lavoro «ha l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno», che costituiscono il suo obbligo contrattuale, in relazione alle norme di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c. (Conforme: Cass. Sez. Lav., 13.05.08 n. 11928 e Cass. Sez. Lav., 25.06.08 n. 17309; Cass., Sez. Lav., sentenze n. 3786 e n. 3788 del 17 febbraio 2009; Cass. Sez. Lav. 02.07.09, n. 18107; Cassazione, Sez. Lav., n. 1477/2014, in linea con SS.UU. n. 13533 del 2001).
Gli obblighi cautelari specifici sono quelli di prevenzione tecnica (artt. 4 e ss. del D.P.R. 303 del 1956), protezione individuale (artt. 377 e 387 e ss. del D.P.R. 547 del 1955), e le ulteriori cautele di cui al D.L.vo 277 del 1991 e del D.L.vo 626 del 1994, poi trasfuse nel D.L.vo 81/2008, e quelli ulteriori di cui all’art. 2087 c.c., in relazione alla «particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica», «necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale» del prestatore d’opera (Corte di Cassazione, Sez. Lav., sentenza 1477/2014; Corte di Cassazione, Sez. Lav., sentenza 15156/2011; Corte di Cassazione, Sez. Lav. 14.04.08, Sentenza n. 9817; ed ex multis), il tutto rapportato alla pericolosità dei materiali utilizzati, e alla possibilità di utilizzare quelli sostitutivi privi di dannosità per la salute umana[67].
C’è quindi un onere della prova di aver adempiuto tutti gli obblighi di sicurezza e tutela dell’integrità psicofisica del prestatore d’opera, e si può ottenere il rigetto della domanda risarcitoria solo se si dimostra che l’evento si sarebbe comunque verificato, ovvero che è dovuto ad altri fatti e circostanze non imputabili, ovvero a forza maggiore o caso fortuito.
VII.2. La responsabilità extracontrattuale.
L’esercizio di attività pericolosa (2050 c.c.), e la violazione degli obblighi di custodia (2051 c.c.) e del neminem laedere (artt. 2043 e 2059 c.c.), nonché la lesione di beni che sono protetti da norme penali (artt. 589, 590 etc. c.p., in combinato disposto con gli artt. 185 c.p. e 2043 e 2059 c.c.), impongono l’obbligo di risarcimento di tutti i danni.
VII.2.1. La responsabilità per lo svolgimento di attività pericolosa.
L’utilizzo di materiali di amianto e/o contenenti amianto, in luogo di quelli sostitutivi, e la successiva mancata bonifica, impone il risarcimento dei danni in caso di insorgenza di malattia professionale asbesto-correlata, sulla base dell’art. 2050 c.c., poiché l’evento è stato causato dall’esercizio di attività pericolose (Corte di Cassazione, IV Sez. Pen., sentenza n. 20047/2010).
Infatti, l’amianto, proprio sulla base della sua pericolosità, aveva portato all’introduzione di una serie di regole cautelari[68], per evitare che ci fossero esposizioni professionali (Corte di Cassazione, IV Sez. Pen., con sentenza n. 49215/2012, già più volte citata), che avrebbero impedito l’insorgenza delle patologie asbesto correlate (cfr. Cass. pen., sez. IV, 11 febbraio 2003, n. 20032; Cass. pen., sez. IV, 11 luglio 2002, n. 988).
VII.2.2. La responsabilità ex art. 2051 c.c.
Il datore di lavoro ha inoltre precisi obblighi di custodia (2051 c.c.), tenendo conto del divieto di esposizione, in vigore già prima della messa al bando del minerale per effetto della L. 257/92, per cui nel caso di esposizione e di danni, conseguenza della malattia/infortunio[69], egli è chiamato a risarcirli anche per tale ulteriore titolo di responsabilità (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 24530/09; Cass. Civ., Sez. Unite, 12019/91).
Infatti il custode, inteso come effettivo detentore del potere fisico sulla cosa, ha l’obbligo di governala e usarla evitandone ogni pregiudizio, anche se legato a particolari contingenze (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 1859/2000), e nel caso di specie alla inalazione di polveri e fibre di amianto, conseguenza della violazione delle regole cautelari, imposte anche in relazione all’alta lesività del materiale e all’obbligo di evitare ogni forma di esposizione (Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 49215/2012).
VII.2.3. Responsabilità ex artt. 2043 e 2059 c.c.
Le norme di cui all’art. 2043 c.c., in uno a quelle di cui all’art. 2059 c.c., in combinato disposto con le norme costituzionali (artt. 2, 4, 29, 30, 31, 35 e 36 della Costituzione) e con quelle comunitarie, anche parificate, in ragione della sussistenza dell’illecito aquiliano per violazione del precetto del neminem laedere, obbligano all’integrale risarcimento di tutti i danni, sia patrimoniali sia non patrimoniali.
VIII. La misura soggettiva della colpa per i profili di responsabilità extracontrattuale.
Per i profili di responsabilità extracontrattuale, aquiliana e/o civile da reato, è necessaria la sussistenza della colpa, che si sostanzia nella violazione delle già citate regole cautelari, oltre che nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento.
È necessario quindi dimostrare, prima di tutto, che alla comunità scientifica, e quindi anche al mondo imprenditoriale, erano noti i rischi legati all’esposizione ad amianto.
Proprio su queste acquisizioni scientifiche si sono basate e si basano una serie di regole cautelari dettate dagli igienisti industriali e poi recepite dal legislatore, fino alla indennizzabilità dell’asbestosi già con la L. 455/1943 e poi con la riproposizione di tutte quelle regole cautelari recepite negli artt. 4, 19, 20 e 21 del d.p.r. 303/56 e negli artt. 377 e 387 del d.p.r. 547/55, senza poter prescindere dalla norma di chiusura (art. 2087 c.c.) e dal successivo compendio normativo, di cui al DLg.vo 277/91, fino alla L. 257/1992 e al DLgs.vo 626/1994, norme poi tutte confluite nel DLg.vo 81/2008.
L’evento, il singolo evento, come il fenomeno epidemico tutt’ora in corso (una vera e propria strage silenziosa), era largamente prevedibile proprio alla luce della letteratura scientifica e del compendio delle regole cautelari che quegli eventi miravano ad impedire.
La prevedibilità consiste nella «possibilità di riconoscere il pericolo che a una data condotta possa conseguire la realizzazione di un reato»[70] e sussiste «qualora le conoscenze dell’epoca dell’azione permettano di porre in relazione causale le condotte e i risultati temuti»[71]. Tra le suddette conoscenze devono ritenersi annoverati, in una logica di valutazione ex ante, «il conoscibile e il concretamente conosciuto»[72] dal soggetto nel momento in cui agisce.
Secondo una diversa – ma equivalente – formulazione di altra giurisprudenza[73], il rimprovero a titolo di colpa deve essere mosso esclusivamente qualora l’evento sia prevedibile ex ante, grazie ad una valutazione fondata sulle conoscenze nomologiche[74] che sono imposte al soggetto agente anche in relazione a una particolare situazione di fatto.
Per valutare la prevedibilità dell’evento è sufficiente che il soggetto agente possa rappresentarsi la potenzialità dannosa del proprio agire rispetto al bene protetto (in questo caso la salute). Le regole cautelari, infatti, hanno una funzione precauzionale rispetto a classi di eventi, ossia debbono essere adottate anche qualora non si conoscano in modo specifico tutti gli effetti dannosi di una determinata attività, ovvero tali effetti non siano tutti conosciuti scientificamente. È sufficiente la potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno, e anche agli effetti penali non è necessaria una specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso quale si è concretamente verificato, valutando la prevedibilità in astratto e non in concreto, in coerenza con la funzione preventiva delle norme cautelari. Nel caso in cui sussista il minimo dubbio di verificazione dell’evento, tutti i titolari delle posizioni di garanzia debbono comunque attivarsi positivamente per evitarlo[75].
La colpa si sostanzia anche nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento, che integrano la responsabilità civile da reato, in relazione alle norme di cui agli artt. 589 e 590 c.p. (Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza n. 49215/12 e in precedenza Cass., Sez. IV, 1/4/2010, n, 20047 ed ex multis[76]).
L’obbligo risarcitorio sussiste anche nel caso in cui l’esposizione si ritenga fosse stata poco intensa (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 644/2005), ovvero al di sotto dei limiti di cui agli artt. 24 e 31 del D.L.vo 277/91 (Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza n. 38991/2010), poiché le soglie non esonerano il datore di lavoro dagli obblighi di sicurezza nel caso di loro mancato superamento, piuttosto gli impongono ulteriori obblighi cautelari per ridurre le fonti di esposizione (Cass., Sez. IV, 20 marzo 2000, n. 3567[77]). Ne consegue che in capo al datore di lavoro sussiste l’obbligo di adottare la migliore tecnologia possibile in tutti i casi nei quali i livelli di esposizione possano essere ulteriormente abbattuti, ovvero totalmente evitati, anche nel caso in cui non si fossero superate le soglie di cui agli artt. 24 e 31 del D.L.vo 277/91 (Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 5117/2008).
L’evento, quale concretizzazione del rischio che le misure cautelari miravano ad evitare, poiché prevedibile ed evitabile, integra a tutti gli effetti la fattispecie di cui agli artt. 2043 e 2059 c.c. e 2087 c.c., e dunque l’obbligo di risarcimento dei danni.
IX. I danni risarcibili.
Ci si limiterà in questa sede, ad approfondire solo alcune delle voci di danno risarcibili.
IX.1 L’indennizzo INAIL.
L’INAIL indennizza il danno patrimoniale, per diminuite capacità di lavoro, e quello biologico, solo nel caso in cui il grado invalidante raggiunga il 16%, con una rendita mensile.
Nel caso in cui il grado invalidante non raggiunga questa soglia (dal 6% al 15%), l’INAIL indennizza il solo danno biologico, con quantificazione che non tiene conto dell’integralità della lesione, con specifico riferimento ai profili dinamico-relazionali, e nessuna prestazione viene erogata laddove il grado di invalidità non raggiunga la soglia minima del 6%.
In caso di decesso, provocato dalla malattia professionale, il coniuge ha diritto alla rendita di reversibilità nella misura del 50%.
In questa medesima prospettiva va ribadito, anche il significato del riferimento – contenuto nell’art. 13, co. II, lett. a), d.lgs. n. 38/2000 – agli aspetti dinamico-relazionali del danno biologico indennizzabile, che sussiste un danno differenziale quantitativo, e qualitativo, e quindi il diritto all’integrale ristoro del pregiudizio non patrimoniale[78], che non può essere confinato nella sola prospettiva indennitaria[79], di per sé estranea alle direttive costituzionali del ristoro integrale e personalizzato del pregiudizio alla persona nella sua complessiva proiezione esistenziale. Sono perciò fondate le domande di risarcimento del maggior danno, anche biologico, subito dalla vittima primaria, oltre che dai familiari; deve pertanto essere calcolato l’ulteriore importo dovuto a titolo di integrale risarcimento dei danni e quindi del differenziale (quantitativo e qualitativo), nel rispetto dell’omogeneità (e comparabilità) dei titoli risarcitori[80].
IX.2 Il risarcimento del danno differenziale.
Il lavoratore malato, ovvero gli eredi di quello deceduto, hanno diritto al totale risarcimento di tutti i danni, prima di tutto di quelli patrimoniali e poi di quelli non patrimoniali, sofferti anche in proprio dagli stretti congiunti e da tutti coloro che avessero un significativo rapporto personale con la vittima (SS.UU., n. 26972 e 26973 del 2008).
I pregiudizi non patrimoniali non consistono nella sola lesione biologica e psicobiologica (art. 32 Cost.), ma travolgono la persona intera, con sofferenze interiori e lesioni alla personalità e alla dignità morale (artt. 2 e 3 della Costituzione), che integrano il c.d. danno morale e alla vita familiare e sociale, che riguarda anche i famigliari (artt. 29, 30 e 31 della Costituzione, che a loro volta sono concatenati con quelli di cui agli artt. 35, 36 e 41 II co. della Costituzione e non possono prescindere da quelli della Cedu e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, i quali ultimi rilevano ai fini della personalizzazione della loro quantificazione – così Corte di Cassazione, III Sez. Civ., sentenza n. 2352 del 2010, che qui si intende riscritta), in quanto in più occasioni loro stessi sono stati esposti e hanno un concreto rischio di ammalarsi che per molti si è concretizzato.
Il lavoratore malato ha diritto al risarcimento del danno differenziale, secondo il criterio delle poste omogenee (così Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 25618/2018[81]), con un metodo che quindi scomputa l’indennizzo dal danno biologico e dal danno patrimoniale per diminuite capacità di lavoro, con integrale ristoro di tutte le altre voci di danno. In caso di decesso con liquidazione in favore degli eredi, legittimi e/o testamentari, sul presupposto del diritto all’integrale ristoro.
Sia il lavoratore che ha contratto la patologia, sia i suoi famigliari hanno diritto al risarcimento del «danno biologico (cioè la lesione della salute), [di] quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile esistenziale, e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiane, risarcibile nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona) costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili» (Corte di Cassazione, III Sez. Civile, con la sentenza 19.02.2013, n. 4033).
La prova dell’entità del danno può essere anche presuntiva e si può raggiungere anche attraverso l’utilizzo del potere di indagine del consulente tecnico di ufficio (Cass. 16471/09; 21728/06 e 1901/2010 ed ex multis), per cui rilevano:
- lo sconvolgimento che i fatti lesivi provocano nella vittima primaria e nei familiari;
- la tipologia ed entità degli stati, temporanei e permanenti, di invalidità riportati dal danneggiato, parametri dai quali già di per sé si può dedurre il livello “minimo presuntivo” di incidenza delle lesioni sul piano della “sfera morale” del danneggiato; dell’età e del sesso della vittima;
- l’attività lavorativa o gli hobby svolti dal danneggiato;
- l’essere la vittima stata oggetto di un’ingiusta lesione della propria persona e della propria dignità umana;
- i disagi ed i fastidi patiti in relazione allo svolgimento delle attività quotidiane;
- la necessità di affrontare operazioni chirurgiche riparatrici, esami invasivi o terapie riabilitative; le perdite di tempo e le frustrazioni incorse in visite mediche, sedute riabilitative, accertamenti medico-legali, sessioni con i propri avvocati; dell’essersi trovato costretto ad affrontare dapprima un iter stragiudiziale e poi giudiziale, con tutti i relativi stress.
IX.3 La non applicabilità della regola dell’esonero.
I datori di lavoro continuano a difendersi invocando la regola dell’esonero di cui all’art. 10 del dpr 1124/65, oltre ad assumere la congruità della regola INAIL, per evitare la condanna al risarcimento dei danni differenziali e complementari[82].
Infatti, tra i pregiudizi non coperti dall’indennizzo INAIL, che in ogni caso non riguarda tutti gli eredi e/o i famigliari della vittima, debbono essere considerati quelli legati allo «sconvolgimento conseguente alla percezione della propria integrità violata»[83], agli stress, fastidi, disagi, dispiaceri, infelicità, amarezze, imbarazzi, sentimenti di «rabbia»[84], frustrazioni ed altre emozioni negative, per il riposo forzato, il turbamento derivante dalla non accettazione del proprio stato e al «sentimento di lesa dignità»[85] per il fatto di dipendere, temporaneamente o in via permanente, in tutto o in parte, dagli altri, anche per le funzioni più elementari della vita, dall’igiene personale sino all’espletamento delle più basilari funzioni corporali e al fatto di dover affrontare un iter legale per la tutela dei propri diritti, ecc.; all’amarezza che scaturisce dalla consapevolezza di non riuscire a stare accanto ai propri cari, familiari ed amici come prima della diagnosi della patologia, cui consegue, quasi sempre, la impossibilità di poter svolgere perfino le più elementari funzioni della vita, ecc.), spaventi, angosce, timori e «prove negative della vita» causati dall’evento dannoso (per esempio, la preoccupazione per il fatto di aver corso o di dover affrontare un determinato potenziale o concreto pericolo per la propria salute o vita[86]; tra i quali la paura per un ricovero, per un’anestesia, per un’operazione o per il dolore fisico), preoccupazioni e timori per il futuro (ad esempio, per le sorti della propria famiglia, per la propria posizione sociale, per il rischio di perdere il lavoro o di non riuscire a concorrere come in precedenza sul mercato del lavoro – il che, di questi tempi, è un serio problema); ovvero di quei perturbamenti dell’animo, ossia di ogni pregiudizio “immateriale” – circoscritto nel tempo (transeunte) o destinato a permanere – derivante dalla alterazione in peius dell’integrità morale (ricordando qui una felice espressione utilizzata dalla Cassazione, della modifica negativa della «sfera dell’intimo sentire»[87]) e non suscettibile di «accertamento scientifico», che per nessun motivo e ragione possono essere ricompresi nei pregiudizi di cui alla rendita INAIL e che sono risarcibili autonomamente.
Allo stesso modo, i pregiudizi sofferti dai famigliari.
X. Il danno da esposizione.
Anche il danno da esposizione deve essere risarcito, sia al lavoratore che agli eventuali congiunti, che subito esposizione indiretta per la contaminazione dei loro cari impegnati nell’attività di lavoro in siti dove il minerale era stato utilizzato (Cassazione, sezione lavoro, 24217/2017)[88].
Con la recente Cassazione, IV sezione penale, 45935/2019, si è affermato il principio della sussistenza di un danno da infiammazione[89], oltre alle conseguenze morali ed esistenziali.
La condizione di preoccupazione, e di sofferenza, ovvero dei veri e propri disturbi fobici e post traumatici da stress, si fondano sulla evidente considerazione che in tutti i casi di mesotelioma si riscontrano ispessimenti e placche pleuriche e per il fatto che, in ogni caso, si inducono danni al DNA cellulare[90] ed al funzionamento della replicazione cellulare[91].
Il processo infiammatorio, del resto, creando delle micro lesioni nei capillari del parenchima, costituisce, già di per se, un danno organico, se non altro perché favorisce l’insorgenza di infezioni, e in ogni caso affatica il cuore e induce danni al sistema cardiocircolatorio e cardiovascolare (c.d. cuore polmonare).
Il Tribunale di Pisa, Sezione lavoro, con sentenza n. 153/2016, pubblicata in data 27.01.2017, ha confermato che per i lavoratori esposti che hanno contratto placche pleuriche ed ispessimenti pleurici e che hanno comunque paura di contrarre il mesotelioma, ovvero altra patologia tumorale, l’entità del risarcimento deve essere quantificata con un “aumento (anche in relazione all’art. 185 c.p.), considerando la particolare penosità connessa al continuo confronto che il ricorrente deve sostenere con l’eventualità di un decorso infausto del proprio stato di salute, anche perché il ricorrente è costretto a regolare i controlli medici con l’inevitabile rinnovazione, ogni volta, dell’apprensione circa il responso dei sanitari”.
Il lavoratore, anche semplicemente esposto ad amianto, se lo è a determinate concentrazioni (più di 100 ff/ll nella media delle 8 ore lavorative per ogni anno e per oltre 10 anni), oltre ad aver diritto all’accredito delle maggiorazioni contributive ex art. 13 comma 8 L. 257/1992, considerato un vero e proprio risarcimento (Cass. Civ. Sezione VI Lavoro, del 09.02.2015, n. 2351)[92], ha diritto a vedersi risarcititi tutti i pregiudizi che ha subito, che debbono qualificarsi come ingiusti.
Infatti, anche qualora non siano state diagnosticate patologie asbesto correlate, vi è quel turbamento psichico[93] che, seppur in assenza del danno biologico vero e proprio, si traduce in lesione psichica, con ricadute sulla sfera esistenziale e sulla vita di relazione, con il c.d. stress da amianto[94], ovvero paura di «ammalarsi».
Sotto il profilo psicologico, il lavoratore esposto modifica la sua stessa identità e il suo ruolo nella società e nella famiglia, modifica il suo carattere e la sua sensibilità, perché diventa pienamente consapevole di poter contrarre una patologia tumorale, anche dopo decenni, e di essere rispetto a questa eventualità totalmente impotente[95].
Avv. Ezio Bonanni
CHIOSA
La lettura di questo pregevole articolo, efficacemente dettagliato nella sua disamina dei variegati aspetti connessi alle tematiche risarcitorie derivanti dall’esposizione ad amianto, mi induce ad esternare alcune riflessioni di carattere pratico.
Numerose volte ho intrapreso battaglie giudiziarie notificando ricorsi e depositando querele farcite di nozioni giuridiche, di dottrina, di pronunce giurisprudenziali, così approdando nelle aule giudiziarie certa di ottenere un pronto riscontro alle aspettative risarcitorie dei miei clienti, spesso eredi di vittime inconsapevoli.
Altrettante numerose volte ho però compreso che celerità non è un termine noto nel nostro sistema giudiziario.
Nei mari tempestosi dei Tribunali, delle Corti di Appello e della Suprema Corte, ove navigano sovente le difese accorate di troppi lavoratori deceduti, constato, ormai, con amara rassegnazione (da non equiparare a sfiducia nella giurisdizione) che nella prassi giudiziaria non sempre gli auspici risarcitori sono pienamente realizzabili e ristorabili in tempi ragionevolmente certi e secondo le legittime aspettative.
E ciò vale prevalentemente in ambito penale, ove le lungaggini procedurali, lo spettro della prescrizione e i contrastanti orientamenti giurisprudenziali in tema del nesso di causalità, rappresentano le secche su cui inevitabilmente si arenano le speranze di ottenere “giustizia”.
La rotta percorsa dalle vittime e dai loro familiari nelle aule giudiziarie si snoda attraverso tre gradi di giudizio, nel corso dei quali si spera di ottenere la conferma della sentenza di condanna, per poi finalmente quantificare l’ammontare del quantum risarcitorio in sede civile.
Accade, quindi, sovente di navigare a bordo della medesima nave, con il medesimo carico di aspettative ed in balia del mare burrascoso della giustizia anche per molti anni.
Accade che, anche solo per superare il primo grado di giudizio, non basti neppure un decennio.
Ed accade anche che, in caso di esito processuale con pronuncia assolutoria definitiva a favore dei datori di lavoro, oltre al danno si aggiunge la beffa di dover pagare le spese processuali di questo interminabile viaggio tra le onde del tempestoso mare dell’in-giustizia.
E così, quelle rare volte in cui vengono avanzate offerte risarcitorie dai datori di lavoro, le medesime, pur non essendo mai pienamente ristorative, rappresentano un pur sempre un approdo che mette almeno la parole fine ad una lenta agonia consumata al beccheggio di ricordi angoscianti e dolori mai sopiti.
Accettare quindi importi a titolo risarcitorio non pienamente satisfattivi, non rappresenta una resa, ma solo l’epilogo di un’amara constatazione identificabile con il fallimento dell’elefantiaco apparato giurisdizionale che non riesce in taluni casi a stare al passo con lo scorrere continuo del diritto vivente.
In questo scenario, in cui si registrano anche contrastanti pronunce giurisprudenziali, si auspica da molto tempo anche un intervento delle Sezioni Unite della Cassazione Penale sull’avversata questione attinente alla parcellizzazione delle singole responsabilità dei datori di lavoro che si avvicendano tra loro nell’assunzione delle posizioni di garanzia; infatti assumere le cariche dirigenziali anche solo per pochi anni conduce il più delle volte all’esenzione da responsabilità penale per l’esposizione cumulativa ad amianto ( ipotesi mesotelioma).
E, quindi non mi resta che convenire con quanto espresso dall’autore Avv. Ezio Bonanni “…omissis… In sede penale, la parte civile eventualmente costituita (ai sensi degli artt. 74 e ss. c.p.p.), sconta l’applicazione di regole molto più rigorose in tema di affermazione della responsabilità e quindi dell’obbligo risarcitorio, anche in caso di citazione del responsabile civile (83 e ss. c.p.p.). Lo sviluppo attuale della giurisprudenza della Corte di legittimità, che sta annullando quasi tutte le sentenze di condanna, suggerisce una diversa opzione per la tutela risarcitoria delle vittime. Quindi con la necessità della tutela civilistica e/o previdenziale…omissis…”.
Purtuttavia analoghe considerazioni, sia pur attinenti a differenti aspetti, riguardano anche i ricorsi giudiziari esperiti innanzi innanzi al Tribunale civile, ove, ma solo a titolo esemplificativo ma non esaustivo, si discute in via preliminare anche in merito al Giudice innanzi al quale incardinare il ricorso (g.o o g.d.l.) per la differente natura dei danni di cui si richiede il risarcimento, giungendo finanche in alcuni e paradossali casi, a coesistere nel medesimo Tribunale ma in uffici differenti, due giudizi aventi medesimo oggetto.
Nel recentissimo ed interessantissimo Convegno tenutosi al Tribunale di Milano lo scorso 30 maggio 2022 alla presenza dell’Avv. Bonanni e di altre autorevoli ed illustri personalità del mondo accademico, giudiziario e scientifico, si è dibattuto a lungo sulle molteplici problematiche connesse al rischio amianto, alla prevenzione del danno, alla tutela delle vittime e, al termine di un proficuo scambio di opinioni e di personali esperienze lavorative, si è giunti unanimemente ad auspicare un intervento legislativo finalizzato a disciplinare una materia così complessa e variegata che possa prevedere l’erogazione di un indennizzo a favore delle vittime dell’amianto e dei loro familiari, anche nell’ottica di contenimento dei costi della giustizia le cui preziose, ma esigue risorse potrebbero essere proficuamente dirottate altrove e non più impiegate in defatiganti processi che solo all’esito di svariati decenni offrono risposte satisfattive alle vittime dell’amianto.
Avv. Emanuela Sborgia
[1] H. Stephano, Thesaurus graecae linguae, vol. I, Parigi 1831-1856 – Rocci L., Vocabolario greco-italiano, Dante Alighieri Ed., 38° edizione, Roma 1995 – Montanari F., Vocabolario della lingua greca, Loescher Ed., Torino 1995.
[2] L’asbestosi è una grave malattia respiratoria ed è stata, in ordine di tempo, la prima malattia correlata all’inalazione di fibre d’amianto, caratterizzata da fibrosi polmonare a progressivo aggravamento che conduce ad insufficienza respiratoria con complicanze cardiocircolatorie, tant’è vero che già dal 1943 fu contemplata tra le malattie professionali indennizzabili con la L. 455/1943, e per effetto dell’art. 4 L. 780/1978, che ha sostituito l’art. 145 del DPR 1124/65, nella determinazione del grado invalidante ai fini INAIL si deve tener conto delle complicazioni cardiocircolatorie.
Questa patologia lede la funzionalità della respirazione e anche quella cardiaca, ed è irreversibile, anche nel caso in cui si l’esposizione venga a cessare. Tale capacità di progressione è dovuta alla persistente azione infiammatoria che le fibre di amianto presentano nel polmone e nelle reazioni immunitarie. Si induce la formazione di un tessuto fibroso nell’interstizio polmonare, zona deputata agli scambi gassosi, con conseguente riduzione della capacità di diffusione dell’ossigeno dall’aria respirata al sangue. La malattia esordisce in genere dopo 10-15 anni dalla prima esposizione, in modo subdolo, e il primo sintomo è la dispnea da sforzo, che aumenta con l’aggravarsi e l’estendersi della fibrosi parenchimale. La tosse (secca o produttiva) è altrettanto frequente ed è talora accompagnata da broncospasmo; se sono presenti placche pleuriche può insorgere dolore toracico. Successivamente compaiono segni di insufficienza respiratoria più marcati, come la cianosi e l’ippocratismo digitale.
Si manifesta per esposizioni medio-alte ed è, quindi, tipicamente una malattia professionale; la sua incidenza è drasticamente diminuita a seguito dell’emanazione della legge che proibisce l’utilizzo dell’amianto (legge 257 del 1992), anche se l’INAIL, ancora nel 2008 e negli anni successivi, ha ricevuto una media di 800 segnalazioni ogni anno di nuovi casi di asbestosi, che ai 5 anni sono risultate per circa il 90% con esito infausto.
[3] International Agency for Research on Cancer (IARC, agenzia dell’OMS, nella sua ultima monografia in materia di amianto – World Health Organization IARC monographs on the evaluation of carcinogenic risks to humans – Vol. 100C “arsenic, metals, fibres, and dusts volume 100 C – A review of human carcinogens” ASBESTOS – Lyon, France – 2012): “There is sufficient evidence in humans for the carcinogenicity of all forms of asbestos (chrysotile, crocidolite, amosite, tremolite, actinolite, and anthophyllite). Asbestos causes mesothelioma and cancer of the lung, larynx, and ovary. Also positive associations have been observed between exposure to all forms of asbestos and cancer of the pharynx, stomach, and colorectum”.
[4] Driscoll T, Nelson DI, Steenland K, Leigh J, Concha-Barrientos M, Fingerhut M et al. The global burden of non-malignant respiratory disease due to occupational airborne exposures. Am J Ind Med. 2005;48(6):432–45.
[5] “The Helsinki declaration on menagement elimination of asbestos – related diseases”: amplius capitolo IV.
[6] L’assenza del piano pandemico, e con esso dei dispositivi di protezione, lo smantellamento della sanità territoriale, e in materia di sicurezza sul lavoro anche la scarsità dei mezzi e delle risorse umane, ha determinato una situazione drammatica sul piano sanitario e sociale, e non solo, ma anche in un contesto economico. La pandemia ha messo in luce la fragilità del sistema di prevenzione, cui anche l’eroico impegno del personale medico e paramedico ha dovuto pagare il prezzo delle stesse popolazioni con la più alta incidenza di mortalità in Italia.
[7] Così il Prof. Gaetano Veneto nel corso della tredicesima puntata di ONA TV: ‘Lavoratori e tutele nell’era del coronavirus’.
[8] Molti dei nostri autorevoli scienziati sono stati valorizzati solo all’estero, come il Prof. Marcello Migliore (ONA TV: ‘Mesotelioma, amianto e malattie del lavoro’).
[9] La Corte Costituzionale ha dichiarato la legittimità costituzionale dell’art. 13 co. 8 della L. 257/92, sul presupposto che anche questi benefici previdenziali, riconosciuti a chi è stato soltanto esposto, hanno comunque la loro natura giuridica di indennizzo, rispetto ad un danno che si è già manifestato. Infatti le fibre, come chiarito da Cassazione, IV sezione penale, 45935/2019, hanno capacità di infiammazione e costituiscono il terreno fertile delle successive patologie neoplastiche. In più, proprio perché il prepensionamento permette di interrompere la situazione di rischio, vi è anche l’ulteriore finalità di prevenzione, in coerenza con le norme di cui agli artt. 32 e 38 Cost., che perciò stesso si sommano a quelle latu sensu risarcitorie (Corte di Cassazione, VI sezione civile, sentenza del 09.02.2015, n. 2351, ed ex multis).
Infatti, l’imponenza del numero dei casi di riconoscimento dell’esposizione ad amianto ex art. 13 co. 8 L. 257/92 (lavoratori non ancora malati) e delle malattie professionali, e il susseguirsi degli accertamenti giudiziari e delle decisioni favorevoli ai lavoratori, e anche le stesse sentenze civili e penali, con condanna al risarcimento dei danni differenziali e complementari, ha portato alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica e alla cristallizzazione di un quadro di oggettivo allarme, anche per la sostenibilità dei conti pubblici. L’amianto è stato infatti utilizzato prima di tutto dallo Stato in tutte le sue articolazioni, e anche da imprese di Stato e perfino nelle scuole e negli ospedali. Soltanto questi accertamenti, in sede amministrativa e giudiziaria, hanno permesso di mettere in luce, e di dimostrare se ancora non ce ne fosse stato bisogno, che l’amianto ha provocato, sta provocando e provocherà decine di migliaia di decessi, e di altrettanti casi di patologie, altamente invalidanti.
[10] Grazie all’impegno dei commissari, tra i quali chi scrive, il Ministro dell’Ambiente, Gen. Sergio Costa, ha disposto nel gennaio 2020 lo stanziamento di 385.000.000 per la progettazione delle bonifiche degli ospedali e delle scuole, con un crono programma per i prossimi anni.
[11] Le soglie sono di maggiore allarme, ovvero impongono ulteriori regole cautelari al datore di lavoro (così Cassazione, IV sezione penale, 38991/2010). In realtà, le soglie sono lo strumento legislativo utilizzato ad arte per sorvolare sul rischio. Per molti anni, se non per decenni, anche le stesse disposizioni del Ministero della Salute, circolare n. 45/1986, sono rimaste nel cassetto, e pertanto le esposizioni sono proseguite anche nelle scuole.
[12] Spesso i responsabili si spogliano di tutti i loro beni non appena vengano raggiunti dal sospetto di poter essere chiamati a rispondere dei danni che hanno provocato, spesso estinguendo le vecchie società, oppure facendole fallire, e in alcuni casi con proseguimento dell’attività con diverse ragioni sociali.
Prof. Tito Boeri, quale Presidente dell’INPS, nel corso dell’assemblea nazionale sull’amianto tenutasi in Senato in data 30.11.2015, ha stimato in 85 anni il tempo necessario per la bonifica dei materiali di amianto. In realtà, mantenendo il ritmo attuale, si impiegherebbe almeno il triplo del periodo stimato.
[13] Soltanto l’Unione Europea (28 Stati) e Algeria, Arabia Saudita, Argentina, Australia, Bahrain, Brunei, Cile, Corea del Sud, Egitto, Gabon, Giappone, Giordania, Honduras, Islanda, Israele, Kuwait, Mauritius, Mozambico, Nuova Caledonia, Oman, Qatar, Seychelles, Sud Africa, Serbia, Slovacchia, Svizzera, Uruguay. L’elenco aggiornato dei Paesi è reperibile sul sito dell’International Ban Asbestos Secretariat, alla pagina: http://ibasecretariat.org/lka_alpha_asb_ban_280704.php
[14] “2013 Minerals Yearbook”, U.S. Department of the Interior – U.S. Geological Survey, di Robert L. Virta. Nel 2014, la Russia ne ha estratto circa 1.100.000, la Cina oltre 400.000, il Brasile circa 284.000, il Kazakhstan 240.000, l’India 270.000, e tra gli utilizzatori la Russia (608.000), la Cina (507.000), l’India (379.000), il Brasile (154,000) ed il Kazakhstan (68.000), come risulta dal sito http://www.ibasecretariat.org/, consultato in data 27.08.2015.
[15] Concha-Barrientos M, Nelson D, Driscoll T, Steenland N, Punnett L, Fingerhut M et al. Chapter 21. Selected occupational risk factors. In Ezzati M, Lopez A, Rodgers A, Murray C, editors. Comparative quantification of health risks: global and regional burden of disease attributable to selected major risk factors. Geneva: World Health Organization;2004:1651–801 (http://www.who.int/healthinfo/global_burden_disease/cra/en/, accessed 11 March 2014).
[16] Per maggiore approfondimenti cfr. ‘Libro bianco delle morti di amianto in Italia’, edizione ONA, 2021 consultabile al link:
[17] Il datore di lavoro, e con lui i dirigenti ed i responsabili, proprio perché utilizzano e traggono profitto dalle energie psicofisiche di coloro che sono alle loro dipendenze, ne debbono proteggere l’incolumità, per salvaguardare non solo quel patrimonio di esperienze professionali, utile nell’ambito della dinamica del rapporto, ma soprattutto per evitare danni irreversibili alla salute e alla dignità del prestatore d’opera e dei suoi familiari.
[18] L’equivalente monetario non restituisce certamente l’integrità psichica e fisica e non tutela pienamente la dignità del lavoratore e dei suoi familiari rispetto all’esito irreversibile della lesione della salute e di tutti gli altri diritti che in sua assenza non possono essere pienamente fruiti.
[19] Cassazione, Sezione Penale, Sez. IV, sent. n. 5037/2000, testualmente: «… le posizioni di garanzia – e quindi l’obbligo giuridico di impedire l’evento – sono anche, (…) posizioni di solidarietà che l’ordinamento giuridico accolla a determinati soggetti sia per proteggere determinati beni giuridici da tutti i pericoli che possono minacciarne l’integrità, ed è questa la posizione di protezione, sia per neutralizzare determinate fonti di pericolo, in modo da garantire l’integrità di tutti i beni giuridici che ne possono risultare minacciati, ed è questa la posizione di controllo, un esempio della quale è la posizione del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori alle sue dipendenze. Questa solidarietà riceve, incontestabilmente, un particolare spessore, una particolare luce, dalla Carta Costituzionale, la quale negli artt. 2 e 3, pone, come è noto, al centro dell’architettura costituzionale la persona umana, riconoscendone, nell’art. 2, i diritti inviolabili sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la sua personalità chiedendo, conseguentemente, nello stesso articolo, l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale e facendo, pertanto, della solidarietà a vari livelli, uno dei valori della Carta e, affermando, nell’art. 3, che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Ed è logica conseguenza di queste solenni affermazioni l’ulteriore affermazione che si legge nell’art. 32, che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto del cittadino e come interesse della collettività ed è certamente attuazione di questi principi il complesso di norme che costituendo i datori di lavoro e le persone allo stesso equiparabili nella posizione di garanzia detta di controllo, intende garantire la salute, l’incolumità psico-fisica del lavoratore».
La stessa Corte precisa che: «La ratio della disposizione va ricercata nell’intenzione dell’ordinamento di assicurare a determinati beni giuridici una tutela rafforzata, attribuendo ad altri soggetti, diversi dall’interessato, l’obbligo di evitarne la lesione e ciò perché il titolare non ha il completo dominio delle situazioni che potrebbero mettere a rischio l’integrità dei suoi beni» (Corte di Cassazione, IV Sez. Pen., sent. n. 5037/2000).
[20] I parametri della prudenza, diligenza e perizia (art. 43 c.p.), debbono essere letti e interpretati non solo nell’ottica della colpa (profilo psicologico), proprio della responsabilità penale ed extracontrattuale, anche aquiliana, ma anche quali regole generiche di condotta del titolare della posizione di garanzia, il quale quindi, anche al di là di regole cautelari specifiche, deve in ogni caso adoperarsi perché siano adottate tutte quelle misure operative specifiche, e in continuo addivenire, fatte emergere dalla scienza e dettate dalla tecnica, per la tutela del bene protetto: così, di fronte a «plurime modalità operative», debbono essere adottate quelle che tutelino la salute e l’incolumità psicofisica, anche ove ciò non fosse disposto da regole cautelari specifiche (Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 2251/2012, in precedenza cfr. Cass. Pen., 03.10.2001, n. 35819). Cass. Pen., 03.10.2001, n. 35819, «(…) nel caso di esistenza di plurime modalità operative utilizzabili per il compimento di un’attività rientrante nel ciclo produttivo, il datore di lavoro, i dirigenti ed i preposti hanno l’obbligo di privilegiare quella che, in astratto ma anche in concreto, si presenti come caratterizzata da minore pericolosità per l’incolumità dei lavoratori con una valutazione comparativa del rapporto tra la gravità del rischio e i costi della soluzione prescelta (…) che non può non privilegiare la salute e la sicurezza dei lavoratori (…)».
[21] La stessa Corte di Cassazione ha ribadito che “versa in colpa il datore di lavoro che, … si sia limitato a rispettare i valori limite … e non abbia osservato l’obbligo di tenere conto delle tecnologie adottate o adottabili nello stesso settore, delle indicazioni della scienza e della tecnica …” (Corte di Cassazione, IV Sez. pen., 05.10.1999).
[22] Nel caso di esposizione ad amianto, l’inadempimento e/o l’illecito sussistono anche per la «“mancata riduzione della polverosità dell’ambiente di lavoro, (…) mancata adozione di procedimenti di lavorazione idonei a limitare le operazioni suscettibili di creare ulteriore polverosità e (…) mancata istruzione adeguata dei dipendenti in ordine alla pericolosità delle lavorazioni a cui erano addetti e alle cautele da osservare (relative alle tute, stivali ecc. e al trattamento di detti indumenti)”, considerando tali omissioni rilevanti “a prescindere dalle questioni relative alla dotazione di mascherine e alle loro caratteristiche tecniche” all’epoca»(Corte di Cassazione, Sez. Lav., sentenza n. 1477/14). La stessa Corte di Cassazione prosegue affermando che “la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c. (…) non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, sanzionando anche, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia” (v. da ultimo Cass. 3.8.2012 n. 13956, cfr. Cass. 1-2-2008 n. 2491, Cass. 14- 1-2005 n. 644)» (Corte di Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 1477/2014).
[23] Così Monti e altri, Cass. Pen., Sez. IV, 9 maggio 2003, in Ragiusan, 2005, 249-250, 196, in Foro It., 2004, 2, 69, in Riv. Pen., 2004, 762. In base a questa impostazione si è così affermato (cfr. Trioni e altri, App. Milano, Sez. IV, 30 agosto 2004, in Riv. Critica Dir. Lav., 2004, 1065) che anche nel caso di decesso di un lavoratore per mesotelioma a causa dell’esposizione all’amianto (esposizione intervenuta in un’epoca nella quale non si avevano conferme scientifiche circa il nesso tra l’asbesto e questa patologia) è in ogni caso sussistente la colpa specifica per violazione di norme, anche quando la norma è posta per prevenire altra patologia, come l’asbestosi, e non già il mesotelioma; tali misure cautelari, infatti (come quelle stabilite dall’art. 21 del D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303), sebbene pensate per prevenire le malattie respiratorie da inalazione di polveri allora conosciute, erano comunque generali ed astratte, e finalizzate a impedire qualsiasi danno che le polveri potessero determinare alla salute nello svolgimento del rapporto di lavoro, quindi anche per evitare quei danni che in ogni caso erano conosciuti, oltre a qualsiasi altro danno, seppure sconosciuto nel 1956, in quanto il bene protetto (e cioè la salute) era il medesimo. Cfr. pure: Friggè c. Ansaldo Energia s.p.a. e altri, Trib. Milano, 26 giugno 2004, in Lavoro nella Giur., 2005, 185; Gastaldi, Trib. Carrara, 13 gennaio 2004, in Riv. Pen., 2004, 347.Questa giurisprudenza si è delineata già negli anni ’90: Calamandrei e altri, Cass. Pen., Sez. IV, 11 maggio 1998, cit., e Macola e altri, Pret. Padova, 3 giugno 1998, in Riv. Trim. Dir. Pen. Economia, 1998, 720, con affermazione della responsabilità penale in base al principio per il quale la prevedibilità dell’evento sussiste laddove l’imputato potesse prevedere che, adottando le misure imposte, si sarebbe potuto evitare un danno grave alla salute ed all’incolumità dei lavoratori, e cioè un danno dello stesso genere di quello poi effettivamente verificatosi, senza che fosse necessaria la previsione dell’evento specifico (per esempio, la morte per mesotelioma o per tumore polmonare). Questa decisione venne poi definitivamente confermata dalla Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 11.07.2002 – 14.01.2003 n. 988.
Infatti, anche prima dell’entrata in vigore della L. 257/92, vi era il divieto di esposizione, a prescindere dalla soglia (Cassazione, IV sezione penale, 49215/2012). Nella giurisprudenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione: «(…) a nulla rileva che il rapporto di lavoro si sia svolto in periodo anche antecedente al 1980, in riferimento al quale è stata ravvisata l’insorgenza della patologia, manifestatasi, dopo un lungo periodo di latenza, solo nel 1993, mentre specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto sono state introdotte per la prima volta col D.P.R. 10 febbraio 1982, n. 15.
Devono, altresì, esser tenute presenti altre norme dello stesso D.P.R. n. 303 del 1956, ove si disciplina il dovere del datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: cosi l’art. 9, che prevede il ricambio d’aria, l’art. 15, che impone di ridurre al minimo il sollevamento di polvere nell’ambiente mediante aspiratori, l’art. 18, che proibisce l’accumulo delle sostanze nocive, l’art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l’art. 20, che difende l’aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l’uso di aspiratori, l’art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione (cfr., in tali termini, Cass. cit. 30 giugno 2005 n. 14010)» (Cass. civ., Sez. Lavoro, 11 luglio 2011, n. 15159).
[24] Così ancora, da ultimo, Cass. Civ., Sez. Lav., 11 luglio 2011, n. 15159, cit.
[25] Si è affermata la responsabilità anche di quel datore di lavoro per il quale l’esposizione era stata inferiore per periodo ed intensità, poiché comunque rilevante nel decorso causale quantomeno per anticipare i tempi di latenza. Va ricordato che il D.L.vo 277/91, imponeva all’art. 24, n. 2, di accertare l’entità dell’esposizione ad amianto e di formulare tutte le valutazioni tenendo conto del rischio per la salute; l’art. 26 imponeva l’obbligo di informare i lavoratori (che prima era riconducibile all’art. 4 del d.p.r. 303/56), imposto in ogni caso dalle norme di lealtà, correttezza e buona fede, che si impongono alle parti nell’esecuzione degli obblighi contrattuali (artt. 1175 e 1375 c.c.); l’art. 27 dettava specifiche norme che imponevano misure tecniche, organizzative e procedurali; l’art. 28 codificava regole cautelari già affermate dagli igienisti industriali e comunque ricavabili dal sistema di cui al d.p.r. 303/56 (artt. 19, 20 e 21), consistenti nelle misure igieniche di pulitura dei locali, delle attrezzature e degli impianti, con l’aspirazione localizzata delle polveri di amianto e la predisposizione di aree speciali che «consentano ai lavoratori di mangiare, bere e sostarvi senza rischio di contaminazione da polvere di amianto (…)»; e al capo “b) dispone che gli indumenti di lavoro o protettivi siano riposti in luogo separato da quello destinato agli abiti civili. Il lavaggio è effettuato dall’impresa in lavanderie appositamente attrezzate, con una macchina adibita esclusivamente a questa attività. Il trasporto è effettuato in imballaggi chiusi, opportunamente etichettati. L’attività di lavaggio è comunque compresa fra quelle indicate all’art. 22; c) provvede a che i mezzi individuali di protezione di cui all’art. 27, comma 2, lettera c), siano custoditi in locali all’uopo destinati, controllati e puliti dopo ogni utilizzazione, provvedendo altresì a far riparare o sostituire quelli difettosi prima di ogni nuova utilizzazione. La pulitura di detti mezzi è effettuata mediante aspirazione”. L’art. 29 imponeva il controllo sanitario dei lavoratori esposti, con precisi obblighi; l’art. 30 imponeva l’obbligo di controllo dell’esposizione dei lavoratori. L’art. 33 dettava obblighi aggiuntivi in ordine al confinamento e alla separazione delle lavorazioni che determinavano aerodispersione di polveri e fibre di amianto, che enucleavano le disposizioni di cui al DPR 303/56; che dovevano trovare applicazione nella esecuzione di «lavori di demolizione e rimozione dell’amianto». L’art. 34 disponeva che il datore di lavoro avrebbe dovuto iscrivere il nominativo dei lavoratori esposti ad amianto in un apposito registro, con l’obbligo, di cui all’art. 35, di comunicarlo ai lavoratori interessati tramite il medico competente, il quale avrebbe dovuto tener conto del registro e della cartella sanitaria e di rischio di cui all’art. 4, comma I, lettera q). Questo percorso normativo ha avuto la sua definizione con le norme di cui al D.L.vo 81/2008, in particolare nel titolo IX, al III capo, e nel resto del testo normativo.
Poiché tutte le patologie asbesto correlate sono dose dipendenti, è di tutta evidenza come, in caso di insorgenza di una di queste patologie, alla violazione delle regole cautelari da parte di più datori di lavoro, sussiste la responsabilità in solido di tutti (Cass., III Sez. Civile, sentenza n. 5893/2016), ovvero di un eventuale unico convenuto per il tutto, anche laddove si siano verificate esposizioni in più siti lavorativi, poiché tutte le esposizioni rilevano in relazione all’art. 41 c.p. quantomeno ai fini della anticipazione dei tempi di latenza (Cass., Sez. lav., sentenza 5086/2012).
[26] L’affermazione di responsabilità alla base dell’obbligo risarcitorio non richiede alcuna prova della esatta entità della pericolosità dell’ambiente lavorativo: è sufficiente verificare che, per i lavori che danno luogo normalmente alla formazione di polveri, il datore e/o i committenti, e i dirigenti e/o responsabili abbiano omesso di adottare tutte le misure che avrebbero portato alla eliminazione, ovvero alla semplice riduzione del rischio (Cass., Sez. III, 21 settembre 1995, n. 9775).
[27] La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza n. 1477/2014, ha ribadito l’obbligo del rispetto delle misure cautelari, anche se “all’epoca non fossero state ancora emanate specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto (introdotte col D.P.R. 10 febbraio 1982, n. 15)” (cfr., in tali termini, Cass. cit. 30 giugno 2005 n. 14010, e conforme Cass. civ., Sez. Lavoro, 11 luglio 2011, n. 15159), poiché tra le c.d. polveri vi rientrano anche i materiali di amianto, per «impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro soggiungendo che “le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione”, cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri».
[28] Con obbligo di risarcire anche di danni subiti da familiari iure proprio.
[29] Legge di copertura, esplicativa del decorso ai fini della formulazione del giudizio sulla causalità individuale. Anche per il mesotelioma trova ormai applicazione la teoria multistadio della cancerogenesi che la Corte di Cassazione, IV sezione penale, sentenza 3615/2016, considera ormai universale richiamando precedenti pronunce di legittimità.
[30] L’adozione degli strumenti di cautela, dettati per il rischio amianto in relazione all’asbestosi, avrebbero evitato il rischio cancerogeno (riferito al mesotelioma e al tumore polmonare), e che pertanto non ci fossero i presupposti della responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale.
[31] www.csddl.it: ‘Il nesso di causalità in tema di patologie asbesto correlate’.
[32] In sede penale, la parte civile eventualmente costituita (ai sensi degli artt. 74 e ss. c.p.p.), sconta l’applicazione di regole molto più rigorose in tema di affermazione della responsabilità e quindi dell’obbligo risarcitorio, anche in caso di citazione del responsabile civile (83 e ss. c.p.p.). Lo sviluppo attuale della giurisprudenza della Corte di legittimità, che sta annullando quasi tutte le sentenze di condanna, suggerisce una diversa opzione per la tutela risarcitoria delle vittime. Quindi con la necessità della tutela civilistica e/o previdenziale.
[33] Queste tesi, sostenute dall’Osservatorio Nazionale Amianto hanno ricevuto recente ulteriore avallo scientifico nel corso della “The Helsinki declaration on menagement elimination of asbestos – related diseases” -10/13.02.2014, pubblicato su ESPOO, Finland. Gli scienziati indipendneti, riuniti nella conferenza internazionale sul monitoraggio e sorveglianza delle patologie asbesto correlate hanno dichiarato “la prevenzione primaria è l’unica via effettiva per eliminare le patologie asbesto -correlate”; nella versione in inglese “primary prevention is the only effective way to eliminate ARDs”.
[34] Poiché già prima dell’entrata in vigore della L. 257/92, sussisteva nel nostro ordinamento un divieto di esposizione professionale ad amianto, e dovendo essere considerata perciò stesso le attività che ne determinavano l’utilizzo come pericolose (2050 c.c.), ovvero dovessero essere coniugate con pressanti obblighi di custodia (2051 c.c.), la responsabilità extracontrattuale sussiste ben oltre il solco di quella aquiliana, ovvero civile da reato, e dunque non è necessaria la sussistenza di un rapporto di lavoro per l’obbligo di risarcimento dei danni (Cass., Sez. Pen., sentenza n. 20047/2010; Cass., IV Sez. Pen., sentenza n. 49215/2012; Cass., Sez. Lav., n. 14010/2005).
[35] Il percorso normativo, che ha condotto ai divieti di cui alla L. 257/92, non può certo rendere legittime quelle condotte, antecedenti l’entrata in vigore di quest’ultima legge, che reiteratamente hanno disatteso, oltre alle regole cautelari specifiche e generiche, anche le elementari accortezze, imposte dall’obbligo di diligenza, perizia e prudenza, da cui si attinge la conferma anche dei profili psicologici (colpa, se non dolo) propri della responsabilità aquiliana, ovvero civile da reato, che si vanno ad aggiungere a tutti gli altri che la vittima e i suoi familiari possono far valere.
Infatti, l’entrata in vigore della L. 257/92 (28.04.1992) costituisce la presa di coscienza del legislatore che il rischio amianto è talmente imponente che non ne è possibile un uso controllato e legittimo che possa essere armonizzato con il pregnante obbligo giuridico di tutela della salute nei luoghi di vita e di lavoro, su cui si articola l’intero ordinamento costituzionale (art. 32 in riferimento agli artt. 2, 3 e 4, in combinato disposto con gli artt. 35, 36 e 41 II co. della Costituzione), anche alla luce dell’efficacia degli strumenti cautelari che se fossero stati adottati nei luoghi di lavoro, avrebbero quantomeno attenuato i numeri di quello che è un vero e proprio genocidio (Cass., IV Sez. Pen., sentenza n. 49215/2012, citata).
[36] Come già rilevato, in relazione alla sussistenza della legge scientifica della rilevanza della dose cumulativa e della dose dipendenza, sia per le patologie fibrotiche che per quelle neoplastiche, tutte le esposizioni rilevano ai fini dell’insorgenza, ovvero dell’anticipazione della latenza di queste patologie: quindi nel caso in cui il lavoratore abbia svolto la sua attività alle dipendenze di più datori, presso i quali è stato esposto ad amianto, tutti ne rispondono, anche quelli per i quali l’esposizione è stata minore per intensità e durata.
Infatti, questo principio è stato recepito da Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 5086 del 29.03.2012, che ha infatti affermato la responsabilità di una società in ordine ai danni subiti da un lavoratore affetto da patologia asbesto correlata ancorché nell’ambito di questo rapporto la sua esposizione fosse stata più breve e meno intensa rispetto a tutte le altre.
[37] Il rischio e l’abbreviazione dei tempi di latenza sono direttamente proporzionali all’entità dell’esposizione per intensità e durata (‘Mortality from lug cancer in asbestos workers’ – 1955 – Richard Doll), per tutte le patologie neoplastiche (mesotelioma, cancro al polmone, alla laringe e all’ovaio, ovvero al colon e agli organi del tratto gastrointestinale).
Le condotte omissive rilevano in ordine al decorso causale, oltre che della sussistenza dei profili psicologici, per il fatto che la condotta alternativa lecita, se posta in essere, secondo gli obblighi di legge, avrebbe evitato o quantomeno fortemente diminuito i tempi e i livelli espositivi a polveri e fibre di amianto di ognuno dei singoli lavoratori, e quindi evitato l’insorgenza di un gran numero di tali patologie, e rispetto a tutti di abbreviare i tempi di latenza, sussistendo dunque, oltre alla causalità generale, anche la conferma di tale modello esplicativo per confermare la sussistenza del nesso di causalità nel caso del singolo lavoratore danneggiato.
[38] Questa neoplasia si origina dalle cellule del mesotelio, delle diverse sierose (pleura, pericardio, peritoneo e tunica vaginale del testicolo).
[39] Marinaccio A, Scarselli A, Merler E, Iavicoli S., Mesothelioma incidence surveillance systems and claims for workers’ compensation. Epidemiological evidence and prospects for an integrated framework. BMC Public Health 2012;12:314. Brown T, Darnton A, Fortunato L, Rushton L, British Occupation Burden Study Group. Occupational cancer in Britain. Respiratory cancer sites: larynx, lung and mesothelioma. Br J Cancer 2012;107 Suppl 1:S56-70.
[40] Lacourt A, Gramond C, Rolland P et al., Occupational and non-occupational attributable risk of asbestos exposure for malignant pleural mesothelioma. Thorax 2014;69(6):532-9. Magnani C, Fubini B, Mirabelli D et al., Pleural mesothelioma: epidemiological and public health issues. Report from the Second Italian Consensus Conference on Pleural Mesothelioma. Med Lav 2012;104(3):191-202. Hodgson JT, Darnton A., The quantitative risks of mesothelioma and lung cancer in relation to asbestos exposure. Ann Occup Hyg 2000; 44(8):565-601.
[41] In Elevato rischio di mesotelioma pleurico e tumore del polmone tra i lavoratori esposti ad amianto titolati a richiedere un pensionamento anticipato pubblicato su Epidemiologia e prevenzione, n. 40 (1): 26-34, gennaio/febbraio 2016.
[42] Per la quale, per le patologie della Lista I INAIL vi è la presunzione legale di origine, ovvero si presume il nesso causale, con onere della prova, in caso contrario, a carico di INAIL – amplius ‘Il nesso di causalità in tema di patologie asbesto correlate’, opera cit. capo VI, nota 62.
[43] Pinto C et al. Second Italian Consensus Conference on Malignant Pleural Mesothelioma: State of the art and recommendations. Cancer Treat Rev (2012), http://dx.doi.org/10.1016/j.ctrv.2012.11.004
[44] Secondo questa teoria, sostenuta dai consulenti di coloro che sono tratti a giudizio per responsabilità legata ad esposizione ad amianto, il mesotelioma sarebbe provocato da una sola singola fibra di amianto. Quindi, essendo impossibile poter individuare i termini e le modalità di inalazione ovvero di ingestione di tale unica fibra, sarebbe altrettanto impossibile individuare eventuali responsabilità, sia in sede civile che soprattutto in sede penale
[45] La sentenza in esame permette la sintesi di alcuni principi fondamentali che governano la formulazione del giudizio sul nesso causale in materia di mesotelioma:
- “La latenza diminuisce con l’incremento dell’esposizione
- Si tratta di una legge scientifica sufficientemente radicata nella comunità scientifica e di carattere universale.
- Non esiste una esposizione irrilevante.
- Studi accreditati indicano che la latenza minima è di circa 15 anni e di 32 anni quella media. Inoltre, l’esposizione lavorativa implica una latenza più breve (…) .
- Sono rilevanti non solo le esposizioni iniziali che conducono inizialmente nel processo cancerogenetico, ma rilevano pure quelle successive fino all’induzione della patologia, dotate di effetto acceleratore, appunto, e di abbreviazione, quindi, della latenza”.
[46] Infatti, “a prescindere dall’individuazione della dose-innescante, le esposizioni successive e, quindi, le ulteriori dosi aggiuntive devono essere considerate concausa dell’evento proprio perché esse abbreviano la latenza ed anticipano di conseguenza l’insorgenza della malattia, accorciano la latenza, aggravano la patologia e, nei casi estremi, anticipano la morte. E’ noto, infatti, che la degenerazione delle cellule possiede uno sviluppo estremamente lento, tanto che si parla ordinariamente di tempi di latenza … [omissis] … sussiste un rapporto esponenziale della dose di cancerogeno assorbita in termini di risposta tumorale, per cui l’aumento della detta dose di cancerogeno assorbito non potrà che comportare evidentemente un accrescimento della frequenza con cui il tumore tende a manifestarsi” (Corte di Cassazione, IV Sezione penale, pronuncia del 16 marzo 2015, n. 11128; coerentemente a Cass., IV Sez. Pen., n. 988/2003; Cass., IV Sez. pen., n. 33311/2012 ed ex multis, con una inversione rispetto alle pronunce della IV Sezione Penale, n. 38991/10 e n. 43786/10, che invece avevano circoscritto l’applicabilità di tali principi sempre ed esclusivamente per tutte le altre patologie, mentre per quanto riguarda il mesotelioma avevano affermato che non sussisteva unanimità scientifica).
[47] La Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, n. 33311 del 27.08.2012 ha precisato che: «(…) non assume rilievo decisivo l’individuazione dell’esatto momento di insorgenza della patologia (Sezione IV, 11.04.2008, n. 22165)» ed ha aggiunto:«dovendosi reputare prevedibile che la condotta doverosa avrebbe potuto incidere positivamente anche solo sul suo tempo di latenza, ampiamente motivata appare la statuizione gravata nella parte in cui giudicata inattendibile la teoria della cosiddetta trigger dose, assume che il mesotelioma è patologia dose dipendente.
Correttamente la sentenza impugnata ha chiarito come da una conclusione scientificamente non contestabile dello studioso [Irving Selikoff] si era giunti ad elaborare l’inaccettabile tesi secondo la quale poiché l’insorgenza della patologia oncologica era causata anche dalla sola iniziale esposizione (c.d. “trigger dose” o “dose killer”), tutte le esposizioni successive, pur in presenza di concentrazioni anche elevatissima di fibre cancerogene, dovevano reputarsi ininfluenti.
Trattasi di una vera e propria distorsione dell’intuizione del Selikoff, il quale aveva voluto solo mettere in guardia sulla pericolosità del contatto con le fibre d’amianto, potendo l’alterazione patologica essere stimolata anche solo da brevi contatti e in presenza di percentuali di dispersione nell’aria modeste. Non già che si fosse in presenza, vera e propria anomalia mai registrata nello studio delle affezioni oncologiche, di un processo cancerogeno indipendente dalla durata e intensità dell’esposizione.
Ciò ha trovato puntuale conferma nelle risultanze peritali alle quali il giudice di merito ha ampiamente attinto. Infatti, la molteplicità di alterazioni innestate dall’inalazione delle fibre tossiche necessita del prolungarsi dell’esposizione e dal detto prolungamento dipende la durata della latenza e, in definitiva, della vita, essendo ovvio che a configurare il delitto di omicidio è bastevole l’accelerazione della fine della vita. Pertanto, di nessun significato risulta l’affermazione che talune delle vittime venne a decedere in età avanzata. La morte, infatti, costituisce limite certo della vita e a venir punita è la sua ingiusta anticipazione per opera di terzi, sia essa dolosa, che colposa.
L’autonomia dei segnali preposti alla moltiplicazione cellulare, l’insensibilità, viceversa, ai segnali antiproliferativi, l’evasione dei processi di logoramento della crescita cellulare, l’acquisizione di potenziale duplicativo illimitato, lo sviluppo di capacità angiogenica che assicuri l’arrivo di ossigeno e dei nutrienti e, infine, la perdita delle coesioni cellulari, necessarie per i comportamenti invasivi e metastatici, sono tutti processi che per svilupparsi e, comunque, rafforzarsi e accelerare il loro corso giammai possono essere indipendenti dalla quantità della dose.
Ciò ancor più a tener conto che l’accumulo delle fibre all’interno dei polmoni, continuando l’esposizione, non può che crescere, nel mentre solo col concorso, in assenza d’ulteriore esposizione, di molti anni, lentamente il detto organo tende a liberarsi delle sostanze tossiche, essendo stato accertato, dagli studi di Casale Monferrato, dei quali appresso si dirà, che l’accumulo tende a dimezzarsi solo dopo 10/12 anni dall’ultima esposizione.»
[48] Tali conclusioni rilevano anche per le altre neoplasie, ivi compreso il tumore polmonare, in caso di lavoratore che avesse anche l’abitudine voluttuaria al fumo di tabacco, essendo ben noto l’effetto moltiplicativo e sinergico dei due cancerogeni.
[49] La Corte di legittimità ha annullato la Sentenza della Corte di Appello di Torino, in quanto aveva escluso il nesso causale tra le esposizioni successive all’insorgenza della patologia e l’evento morte: «L’enunciazione, in breve, è non motivata ed incoerente rispetto alla precedente esposizione di carenza di presupposto scientifico accreditato che condiziona la tesi accusatoria (…) in tale situazione, la pronuncia deve essere annullata con rinvio. La questione dovrà essere esaminata nuovamente a fondo. I dubbi, le incertezze, le contraddizioni dovranno essere se possibile risolti in modo convincente. Come già enunciato si dovrà compiere, con l’ausilio di esperti qualificati ed indipendenti, una documentata metanalisi della letteratura scientifica universale. Le opinioni e le enunciazioni degli esperti di parte dovranno essere vagliati, se necessario, con l’aiuto di periti. Ma ci si dovrà astenere da valutazioni ed enunciazioni scientifiche proprie. Infatti, né il giudice di merito né quello di legittimità possono ritenersi ad alcun titolo detentori di sapere scientifico, che deve essere invece veicolato nel processo dagli esperti. Alla luce di tali principi sarà pure vagliata la questione inerente alla dipendenza da mesotelioma della morte del lavoratore R.». Si afferma, altresì, che «è superata alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche che indicano un processo ben più complesso, implicante l’intervento di molte variabili oltre alla dose innescante. Inoltre, costituisce sapere scientifico condiviso il fatto che l’evidenza epidemiologica disponibile sia univoca nell’indicare una relazione proporzionale tra dose cumulativa ed incidenza, nel senso che all’aumento dell’esposizione per intensità e durata aumentano i casi di tumore all’interno della popolazione esposta. Ancora, l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità è indirizzato nel senso della rilevanza dell’effetto acceleratore. Infine, gli studi citati dai periti e dai i consulenti della difesa circa i soggetti che dopo una breve esposizione hanno sviluppato la patologia a distanza di molti decenni non costituiscono una prova sfavorevole alla tesi dell’effetto acceleratore. Si aggiunge che la teoria dell’effetto acceleratore sostenuta in sede epidemiologica ha trovato convincente conferma anche in sede di patologia sperimentale».
[50] Consensus Report “Asbestos, asbestosis, and cancer: the Helsinki criteria for diagnosis and attribution” (1997)
[51] Lo studio australiano, condotto a Wittenon, nel 2005, dall’Occupational & Environmental Epidemiology Group, School of Population Health, University of Western Australia, Crawley, ha evidenziato che, tra il 1990 e il 2002, ci furono 58 casi di tumore al polmone, il 36% dei quali presentava una evidenza radiografica di asbestosi. Di qui la conclusione a mente della quale nella coorte dei lavoratori e residenti di Wittenoom, l’asbestosi non è un precursore del cancro al polmone causato dall’amianto.
In altri termini, i dati osservati hanno dimostrato che l’amianto di per sé causa il tumore al polmone, che può svilupparsi in presenza o meno di asbestosi.
Parimenti, lo studio condotto in Canada dall’ INRS-Institut Armand-Fr
[52] Uno studio di mortalità dei titolari di rendita per asbestosi in Italia (1980-1990) ha messo in evidenza un incremento significativo dei tumori polmonari, pleurici e peritoneali sia tra gli uomini che tra le donne ed un incremento significativo dei tumori intestinali soltanto tra le donne (Germani,1996).
[53] Ministero della Salute, “Stato dell’arte e prospettive in materia di contrasto alle patologie asbesto-correlate”, “Quaderno del Ministero della Salute n. 15”, pagg. 39-42, maggio-giugno 2012, paragrafo dedicato al tumore al polmone.
[54] Su 17.800 lavoratori di materiali isolanti in amianto, dove ci si aspettava il 38.1 di decessi causati al cancro al colon e al retto, se ne verificarono 59 [Selikoff et al., 1979].
[55] Quella di limitata probabilità.
[56] Come da Gazzetta Ufficiale del 12.09.2014.
[57] “There is sufficient evidence in humans for the carcinogenicity of all forms of asbestos (chrysotile, crocidolite, amosite, tremolite, actinolite, and anthophyllite). Asbestos causes mesothelioma and cancer of the lung, larynx, and ovary…”.
[58] Eurogip: ente di diritto pubblico creato nel 1991 dalla Sezione Infortuni sul lavoro – malattie Professionali della Sicurezza Sociale francese.
[59] Con questa pronuncia è stata annullata la sentenza della Corte di Appello di Bologna, che aveva deciso di rigettare la domanda risarcitoria di un lavoratore afflitto da tumore polmonare riconosciuto dall’INAIL come di origine professionale solo perché egli era un fumatore, senza che ci fosse la prova del fatto che solo l’abitudine al fumo ne avesse determinato l’insorgenza. Tale principio è stato confermato da Cassazione Civile, Sez. lav., 26 marzo 2015, n. 6105.
[60] È quindi sufficiente, per il collegamento causale la “probabilità qualificata” (Corte di Cassazione Civile, 24.01.2014, n. 1477, che richiama Cass. 12.05.2004, n. 9057), come già in precedenza affermato dalla stessa Corte (Cass. Sez. Lav., n. 5086/12), la quale puntualizza che, anche in caso di più fonti di esposizione a polveri e fibre di amianto, sussiste comunque la responsabilità del datore di lavoro pur se l’esposizione che gli si attribuisce è inferiore a quella extraprofessionale oppure a quella causata da altri datori di lavoro: «Pertanto, applicando i principi della “probabilità qualificata” e della “equivalenza causale” più volte affermati in materia da questa Corte (v. fra le altre Cass. 11-6-2004 n. 11128, Cass. 12-5-2004 n. 9057, Cass. 21-6-2006 n. 14308, Cass. 8-10-2007 n. 21021, Cass. 26-6- 2009 n. 15080, Cass. 10-2-2011 n. 3227, nonché Cass. 3-5-2003 n. 6722, Cass. 9-9-2005 n. 17959, Cass. 4-6-2008 n. 14770, Cass. 17-6- 2011 n. 13361) la Corte di merito, sulla base delle risultanze della prova testimoniale ha accertato in particolare “la presenza di amianto nei rivestimenti della struttura dei forai di cottura, nei cui pressi il B. operava, nonché nelle sconnessure dei circa 1.000 carrelli sui quali il materiale refrattario veniva collocato e nei materassini usati dai fuochisti” nonché “l’inquinamento ambientale, provocato dallo sfarinamento delle guarnizioni delle porte dei forni e dalla presenza dei residui di amianto nell’ambiente di lavoro fino alle pulizie dei locali”».
[61] La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 1477 del 2014 richiama la «relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale ossia del “più probabile che non” (v. fra le altre Cass. 16- 1-2009 n. 975, cfr. Cass. 16-10-2007 n. 21619, Cass. 11-5-2009 n. 10741, Cass. 8-7-2010 n. 16123, Cass. 21-7-2011 n. 15991)». Tale decisione è coerente con la giurisprudenza consolidata (cfr. Cass. Sez. Unite, sent. 581/08 ed ex multis Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619; Cass. 18 aprile 2007, n. 9238; Cass. 5 settembre 2006, n. 19047; Cass. 4 marzo 2004, n. 4400; Cass. 21 gennaio 2000, n. 632), per cui in sede civile è sufficiente per integrare il nesso causale la «probabilità qualificata» (Cass., sentenza 6388/98).
[62] Secondo la Corte, la valutazione di elevata probabilità di produzione dell’evento costituisce «l’elemento qualificante in materia di accertamento del nesso causale (cfr., ad es., da ultimo, Cass. 16 gennaio 2009 n. 975) oltre che della colpa». Infatti: «Quanto all’incidenza del rapporto di causalità, nel caso di specie trova applicazione la regola dell’art. 41 c.p., per la quale il rapporto causale tra evento e danno ègovernato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 c.p., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (Cass. 9.09.05 n. 17959)» (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 2251/2012).
[63] Cassazione, Sezione Lavoro, n. 5174/2015: “che in materia di nesso causale tra attività lavorativa e malattia professionale, trova diretta applicazione la regola contenuta nell’art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, che sia di per sé sufficiente a produrre l’infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge”.
[64] In assenza di prova del decorso alternativo che grava sul datore di lavoro, si conferma l’obbligo risarcitorio anche nel caso di tumore polmonare con sinergia tra diversi cancerogeni, alcuni dei quali extralavorativi.
Il nesso causale è confermato dalla capacità che hanno tutte le esposizioni ad amianto di anticipare i tempi di latenza, rispetto ad un processo cancerogeno che può pure essersi generato in seguito ad altre esposizioni, fossero anche di natura extraprofessionale, e anche nel caso in cui quelle dedotte fossero più limitate per intensità e durata, e dunque con l’obbligo del risarcimento per il totale. Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 5086/2012. Le altre esposizioni, e quindi il loro contributo causale, in relazione ai danni subiti, possono portare ad una graduazione dell’entità del risarcimento, con l’applicazione di un criterio riconducibile alle norme di cui all’art. 1227 c.c..
[65] Pertanto sussiste il nesso causale, come chiarito dalla Corte di Cassazione, Sezione lavoro, sentenza n. 15078 del 26.06.2009: «la valutazione di elevata probabilità di produzione dell’evento costituendo l’elemento qualificante in materia di accertamento del nesso causale (cfr., ad es., da ultimo, Cass. 16 gennaio 2009 n. 975) oltre che della colpa».
[66] In sede civilistica rileva quanto evidenziato dalla Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con la sentenza n. 2251 del 2012, nella quale testualmente: «Quanto all’incidenza del rapporto di casualità, nel caso di specie trova applicazione la regola dell’art. 41 c.p., per la quale il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 c.p., in forza del quale il nessun eziologico è interrotto dalla sopravvivenza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni (Cass. 9.09.05 n. 17959)». Secondo la sentenza citata, ogni esposizione morbigena rileva perché contribuisce ad aggravare la condizione di rischio e di lesione e perché abbrevia i tempi di latenza, oltre ad avere un effetto moltiplicatore e acceleratore del processo cancerogeno. In tema di responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087, la Corte afferma: «La responsabilità non ha nulla di oggettivo, ma rappresenta uno dei contenuti del contratto di lavoro, costituito dall’obbligo di predisporre tutte le misure e le cautele idonee a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio (v. anche Cass. 1.02.08 n. 2491). In ragione di tale obiettivo, correttamente il giudice di merito ha ritenuto che la semplice rimozione dei residui della lavorazione dell’amianto non fosse sufficiente a rendere salubre l’ambiente di lavoro, in ragione della conosciuta nocività delle fibre volatili liberate dal materiale di amianto e che l’omissione di idonee misure di questo tipo (consistenti non solo nell’adozione di specifici dispositivi di sicurezza, ma anche nella diversa organizzazione delle operazioni di lavoro) costituisce violazione dell’obbligo di sicurezza.
[67] L’obbligo di adozione di tali misure sussisteva anche ove si ritenesse che al tempo non fossero ancora state dettate norme specifiche per la tutela dalle polveri di amianto e anche per le patologie che all’epoca non erano ancora ritenute causate dal minerale. Rispetto al rischio amianto, infatti, il bene giuridico protetto è la salute, e per proteggerlo erano state dettate ed imposte queste regole cautelari, che erano efficaci perché impeditive dell’evento, che si sostanzia anche nell’anticipazione dei tempi di latenza, e che comunque le stesse miravano ad evitare (Corte di Cassazione, IV Sezione Penale, sentenza 988/2003 ed ex multis).
[68] È sufficiente richiamare il compendio di regole cautelari che parte dal R.D. 442/1909, che ha definito insalubri le lavorazioni dell’amianto e ne ha fatto divieto di lavorazione alle donne e ai fanciulli, e il contenuto delle norme di cui alla L. 455/1943, che ha riconosciuto l’asbestosi come malattia professionale indennizzabile dall’INAIL, con specifiche norme di carattere preventivo e precauzionale, e poi ancora quelle di cui al DPR 547/55 e 303/56 prescrivevano una serie di cautele da adottare nello svolgimento delle lavorazioni a contatto con polveri, come già ampiamente specificato nei capi che precedono.
[69] Le malattie professionali asbesto correlate debbono essere ritenute malattie/infortunio (tra le tante, Cass., Sez. I, sentenza n. 11894 del 6 febbraio 2002 ud. – dep. 23 marzo 2002 – imp. Capogrosso e altri – rv. 221072).
[70] Cass., sez. IV, 22 maggio-24 giugno 2008 n. 25648, Pres. Galbiati – Est. Brichetti – Ric. Ottonello et al.
[71] Cass., sez. IV, 7 febbraio-20 marzo 2008, n. 12361, p. 3.
[72] Cass., sez. IV, 22 maggio-24 giugno 2008, n. 25648, p. 5.
[73] Cass.,sez. IV, 1 ottobre-23 ottobre 2008, n. 39882, Pres. Galbiati – Est. Brichetti, Ric. Z., Dir. e Gius. (online), p. 10 e in precedenza Cass., Sez. IV, 22 novembre 2007-1 febbraio 2008, n. 5117.
[74] In tali pronunce, l’espressione “conoscenze nomologiche” sembrerebbe indicare il complesso delle leggi causali – dello stesso tipo di quelle necessarie ex post per spiegare il nesso causale – la cui conoscenza è doverosa ex ante per l’agente. L’accertamento della prevedibilità deve essere, quindi, effettuato utilizzando la base nomologica ottenuta con la spiegazione causale, espungendo da questa le sole conoscenze acquisite successivamente al momento in cui è stato commesso il fatto.
[75] Cass., sez. IV, 22 novembre 2007-1 febbraio 2008, n. 5117, Pres. Morgigni – Est. Piccialli – Rie. Biasotti et al.
Anche a voler applicare l’orientamento più restrittivo, che tenga quindi conto della concreta capacità dell’agente di uniformarsi alla regola cautelare e della sua efficacia, non di meno sussiste la responsabilità e dunque l’obbligo risarcitorio, in quanto l’utilizzo di materiali alternativi, privi di dannosità per la salute, e l’adozione di tutti gli strumenti di prevenzione tecnica (artt. 4, 19, 20 e 21 del DPR 303 del 1956) e di protezione individuale (artt. 377 e 387 del DPR 547/55), e degli obblighi di prudenza, perizia e diligenza (art. 43 c.p.) e quelli di cui all’art. 2087 c.c., avrebbero avuto concreta possibilità di evitare l’evento, o quantomeno evitato l’anticipazione dei tempi di latenza della patologia, per cui sussiste l’obbligo di risarcimento anche per i profili di responsabilità aquiliana.
[76] La Corte di Cassazione chiarisce che, nell’impossibilità di evitare tutte le esposizioni ad amianto, e tenendo conto che non c’è un limite al di sotto del quale il rischio si annulla, il Legislatore ne ha vietato l’utilizzo, con obbligo di risarcire i danni per le precedenti esposizioni (Cassazione, sentenza 20047/2010 ed ex multis).
[77] Corte di Cassazione, Sez. IV, 20 marzo 2000, n. 3567: «Il datore di lavoro è obbligato a tenere conto delle tecnologie (…) adottabili nello stesso settore (…) l’obbligo del datore di lavoro di prevenzione contro gli agenti chimici scatta pur quando le concentrazioni atmosferiche non superino determinati parametri quantitativi, ma risultino comunque tecnologicamente passibili di ulteriori abbattimenti (…)».
[78] Per un approfondimento cfr. A. Ciriello, Sicurezza e infortuni sul lavoro: responsabilità e danno, in corso di pubblicazione, p. 447 ss.; R. Riverso, Approdi giurisprudenziali in tema di danno iure proprio e iure hereditatis. Aspetti processuali. L’applicabilità del rito del lavoro. Il danno da morte del lavoratore, tanatologico e terminale. Criteri di liquidazione, in G. Moro-R. Tosato (a cura di), Malattie da amianto. Danni alla persona ed esperienze giurisprudenziali, Roma, 2012 p. 131, il quale ribadisce che «il riferimento agli aspetti dinamico relazionali considera i riflessi indotti dalla menomazione della capacità psico-fisica in modo indifferenziato su tutti i soggetti infortunati o tecnopatici; non riguarda invece gli aspetti soggettivi e la personalizzazione del danno che restano affidati alla tutela risarcitoria».
[79] Come osserva App. Roma (ud. 21 ottobre 2014), cit., il danno biologico nel sistema indennitario concerne la lezione della salute «secondo le ricadute di effetti dinamico-relazionali di un uomo medio».
[80] La tesi dello scorporo delle poste ai fini della comparazione di titoli risarcitori omogenei costituisce l’esito d’un faticoso. ma consapevole, percorso giurisprudenziale: cfr. A. Ciriello, Sicurezza e infortuni sul lavoro, cit., p. 457 s.; M. D’Oriano, La liquidazione del danno alla persona, cit., p. 23 ss.; C. Parise, Tra previdenza e lavoro: questioni controverse, cit., p. 18 ss.
[81] Già in precedenza la Suprema Corte aveva ribadito, con la nota ordinanza della VI sez. civile n. 25618/2018, che “…il criterio corretto è rappresentato da quello “per poste” sottraendo l’indennizzo Inail dal credito risarcitorio solo quando l’uno e l’altro siano destinati a ristorare pregiudizi identici. Corollari di tale modus procedendi sono che: a) se per una voce di danno l’indennizzo Inail eccede il credito civilistico, nulla potrà pretendere per quel danno la vittima dal responsabile; b) se per una voce di danno l’indennizzo Inail eccede il credito civilistico, il responsabile non potrà pretendere che l’eventuale eccedenza sia riportata a defalco di altri crediti risarcitori della vittima (così, ex plurimis, Cass. n. 27669717; Cass. n. 13222/15) Corte di Cassazione -VI sez. civ. – Ordinanza n. 25618 del 15/10/2018”.
[82] La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 45/2009, precisa che «le conseguenze in tema di riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro … ed in particolare dalla natura contrattuale della responsabilità, è che esso si pone negli stessi termini che nell’art. 1218 c.c. sull’inadempimento delle obbligazioni».
La regola dell’esonero era stata già via via erosa dalla giurisprudenza, anche costituzionale, e in ultimo la Corte di Cassazione ha stabilito che «L’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per i danni occorsi al lavoratore infortunato e la limitazione dell’azione risarcitoria di quest’ultimo al cosiddetto danno differenziale nel caso di esclusione di detto esonero per la presenza di responsabilità di rilievo penale, a norma dell’art. 10 D.P.R. n. 1124 del 1965 e delle inerenti pronunce della Corte Cost., riguarda l’ambito della copertura assicurativa, cioè il danno patrimoniale collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica». Tale esonero, secondo la Corte,non riguarda gli altri danni, che debbono essere tutti risarciti, sia quelli subiti dal lavoratore defunto sia quelli patiti dai suoi familiari: «Invece – in armonia con i principi ricavabili dalle sentenze della Corte cost. n. 356 e 485 del 1991 e con il conseguente orientamento della giurisprudenza ordinaria sui limiti della surroga dell’assicuratore – tale esonero non riguarda il danno alla salute o biologico e il danno morale di cui all’art. 2059 c.c., entrambi di natura non patrimoniale, al cui integrale risarcimento il lavoratore ha diritto ove sussistano i presupposti della relativa responsabilità del datore di lavoro (cfr., ex aliis, Cass. n. 8182/2001 e successive conformi)» (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 777/2015 ed ex multis).
[83] Così, efficacemente, si rinviene in App. Torino, sez. III, 5 ottobre 2009, n. 1315, est. Scotti, in www.dirittoegiustizia.it, 2009, 12.
[84] Cfr. su questa «reazione naturale» quale componente del danno morale Trib. Roma, sez. XI, 13 luglio 2009, in www.altalex.it, nonché da ultimo Trib. Torino, Sez. distaccata Chivasso, 15 giugno 2011, n. 38, g.u. Vicini, ined., in cui, in un caso di responsabilità medica, si è tenuto distinto dal «dolore nocicettivo della sofferenza fisica per le lesioni e i loro postumi, che coincide con il danno biologico», il dolore «c.d. psicosociale, rappresentato dal senso di inadeguatezza, di rabbia che inevitabilmente prova colui che non è più in grado di condurre una vita normale, soprattutto allorché ciò sia la conseguenza di una ingiusta condotta altrui».
[85] Questa felice espressione si rinviene in R. Domenici, La quantificazione del dolore, cit., 205.
[86] Cfr., ancora da ultimo, Cass. civ., Sez. III, 13 maggio 2009, n. 11059, in Resp. civ., 2009, 7, 658, in cui la Suprema Corte, in occasione dell’ennesima sentenza sul disastro ambientale di Seveso, ha affermato la risarcibilità del danno morale occorso a 86 cittadini residenti in prossimità dell’impianto da cui, nel 1976, fuoriuscì una nube tossica composta da diossina. Nello specifico, la Cassazione, asserendo il principio per cui «il danno non patrimoniale consistente nel patema d’animo e nella sofferenza interna ben può essere provato per presunzioni e che la prova per inferenza induttiva non postula che il fatto ignoto da dimostrare sia l’unico riflesso possibile di un fatto noto, essendo sufficiente la rilevante probabilità del determinarsi dell’uno in dipendenza del verificarsi dell’altro secondo criteri di regolarità causale», ha ritenuto che fosse stato correttamente riconosciuto dal giudice del merito il danno morale consistente nel «patema d’animo e nella sofferenza interna», provocati in ciascuna delle vittime dalla «preoccupazione per il proprio stato di salute».ConformeCassazione, Sez. Lav., Sentenza n. 649 del 23 gennaio 1999 (Rv. 522582): «(…) non costituendo la sezione lavoro, nell’ambito della pretura, un diverso organo di giustizia, la questione se una controversia spetti al giudice del lavoro, ovvero ad altro magistrato della stessa pretura, non pone un problema di competenza in senso proprio, ma di distribuzione delle cause all’interno dello stesso ufficio (Cass. nn. 12210/92; 518/92; 11651/91 ed altre). Deve aggiungersi che, ai sensi degli artt. 2 e 3 della legge 1.2.1989, n. 30, come interpretata autenticamente dall’art. 1 della legge 11.7.1989, n. 251, i rapporti tra la pretura circondariale e le sue sezioni periferiche, ai fini della distribuzione delle cause, non pongono problemi di competenza in senso stretto, ma solo problemi di organizzazione interna (conf. Cass. n. 9582/97)».
[87] Così Cass. civ., Sez. III, ord., 25 febbraio 2008, n . 4712, in Danno e resp., 2008, 5, 553, in Corr. giur., 2008, 5, 621.
[88] Soltanto con l’art. 14 n. 2 lettera B del Dlgs 277/91 è stato reso obbligatorio il “lavaggio … effettuato dall’impresa in lavanderie appositamente attrezzate, con macchine adibite esclusivamente a questa attività. Il trasporto, sia all’interno che all’esterno dello stabilimento, è effettuato in imballaggi chiusi, opportunamente etichettati”. In precedenza, tale obbligo si ricava dalla norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c..
In molti casi, i lavoratori esposti, pur avendo già subito un pregiudizio alla salute per effetto dell’inalazione ed ingestione di polveri e fibre di amianto, non hanno ancora contratto una delle classiche patologie asbesto correlate, che hanno tempi di latenza molto lunghi, anche fino a 50 anni, e in molti casi tale esposizione è stata estesa anche ai famigliari, in particolare alle moglie di questi sventurati, colpevoli solamente di aver lavato le tute ai loro mariti e che spesso hanno pagato e purtroppo continueranno a pagare con la vita quello che per loro era un gesto d’amore, e che invece per i datori di lavoro è stato come infliggere una sentenza di morte.
Anche in assenza di diagnosi di patologia asbesto correlata, in ogni caso il danno già c’è, per la sola esposizione alle polveri di amianto, perché si determina un pregiudizio grave per lesione rilevante del diritto alla salute, ovvero per violazione dell’art. 32 Cost., e quindi con il diritto al risarcimento del danno morale, anche in assenza di prova di una concreta ripercussione esistenziale.
Per questi motivi, oltre ad essere risarcibile il danno da paura di ammalarsi, ovvero di ammalarsi di più gravi patologie, per quanto riguarda il lavoratore (Cassazione, sezione lavoro, 24217/2017, e nella giurisprudenza di merito Tribunale di Massa Carrara, Sezione lavoro, sentenza n. 212/2013 e sentenza n. 213/2013), debbono essere risarciti di tali danni anche i familiari vittime di esposizione domestica, anche in assenza di insorgenza di patologia asbesto correlata, ovvero di un danno biologico che sia nosologicamente rilevante.
[89] Pubblicazione dal titolo “Aspirin delays mesothelioma growth by inhibiting HMGB1-mediated tumor progression”, di H Yang,L Pellegrini, A Napolitano, C Giorgi, S Jube1, A Preti, CJ Jennings, F De Marchis, EG Flores, D Larson, I Pagano, M Tanji, A Powers, S Kanodia, G Gaudino, S Pastorino, HI Pass, P Pinton, ME Bianchi and M Carbone, tutti scienziati di fama internazionale, da cui si evince come il processo tumorale ha origine da quello infiammatorio indotto dalle fibre di amianto, sia in riferimento all’insorgenza del mesotelioma che in riferimento all’insorgenza delle altre patologie asbesto correlate tumorali.
[90] “A Molecular Epidemiology Case Control Study on Pleural Malignant Mesothelioma” a cura di Claudia Bolognesi, Fernanda Martini, Mauro Tognon, Rosa Filiberti, Monica Neri, Emanuela Perrone, Eleonora Landini, Paolo A. Canessa, Gian Paolo Ivaldi, Pietro Betta, Luciano Mutti e Riccardo Puntoni.
[91] Anche l’aspetto psicologico influisce sulla cancerogenesi. In tal guisa è di tutta evidenza come anche la semplice esposizione, ovvero l’insorgenza di patologie fibrotiche, apparentemente non mortali, costituiscono, comunque, un pregiudizio grave per la vittima e per i familiari.
[92] Più ampiamente: E. Bonanni “Benefici contributivi per esposizione ad amianto”, Diritto dei lavori, anno IX, n. 2, luglio 2015.
[93] G. Tagliagambe, Danno biologico e danno morale per esposizione all’amianto (nota a Pret. Torino 10 novembre 1995, Bonelli e altro c. Ferrovie dello Stato), in Riv. crit. dir. lav., 1996, II, 727.
[94] R.L. Rabin, Esposizione ad amianto e “stress emozionale” per il timore di malattia futura, in Danno e Responsabilità, 1998, II, 757.
[95] Sotto questo profilo, non vi è dubbio che per questi lavoratori debbono essere risarciti anche i danni da semplice esposizione e tale diritto si estende, in alcuni contesti, anche ad intere comunità, come per esempio per quella di Casale Monferrato, come lo fu con la sentenza del Tribunale Penale di Torino n. 565/2012, confermata in appello e poi però annullata dalla Corte di Cassazione solo per la prescrizione del reato di cui all’art. 434 c.p.. Il danno da esposizione non può che essere quantificato equitativamente, tanto più che costituisce una voce del tutto slegata dal danno biologico, e può essere classificato quale pregiudizio morale e/o esistenziale e soltanto nel caso in cui la lesione psichica diventi patologia può dar vita a un vero e proprio danno biologico (disturbo post-traumatico da stress).