Impresa e lavoro: ritorno al futuro

La relazione tra impresa e lavoro si snoda nella prospettiva del necessario contemperamento degli interessi a ciascuno dei due poli facenti capo.

Il processo, che oggi possiamo dire soggetto a periodiche oscillazioni, è stato, agli albori della Repubblica, dalla nuova Costituzione solennemente dichiarata “fondata sul lavoro”, nettamente segnato dalla tendenza al superamento, all’interno del rapporto di lavoro, dello squilibrio tra organizzazione e subordinazione.

Il disegno culmina nel 1970 nell’emanazione dello Statuto dei lavoratori, che, nel rendere “stabile”, con l’annettere al licenziamento illegittimo la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, il rapporto, già in precedenza sottratto a forme di interposizione fittizia, tale da separare il lavoratore dall’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa ed alla precarietà dell’apposizione del termine, ammessa solo con riguardo ad ipotesi tassative, ridefinisce “al di là dei cancelli della fabbrica” il perimetro tra autorità e libertà, circoscrivendo i poteri del datore, ma ancor più offrendo sostegno legislativo al consolidarsi nei luoghi di lavoro di un contropotere facente capo ad un soggetto collettivo opportunamente selezionato, in ragione della sua rappresentatività, all’epoca declinata, essenzialmente sul vincolo associativo verso le confederazioni storiche[1].

Intorno alla figura, divenuta egemone, del “sindacato maggiormente rappresentativo” il mondo del lavoro si costituisce come parte di uno “scambio politico”[2], che vede come diretto interlocutore nella definizione della condizione del lavoratore all’interno del rapporto, considerata, peraltro, nel più ampio contesto sociale del suo essere al tempo stesso “consumatore”[3], lo stesso Governo e come contropartita la disponibilità al contenimento delle istanze e delle azioni rivendicative[4].

E’ in particolare sul terreno del conflitto – e siamo negli anni ’90 – che riaffiora la considerazione dell’interesse dell’impresa anche se sotto le sembianze della tutela dell’utenza dei servizi pubblici essenziali, ambito, quello del lavoro pubblico, solo pochi anni prima, a seguito dell’emanazione, nel 1983, della legge quadro sul pubblico impiego, che ne inaugurava la fase della contrattualizzazione[5], acquisito alla dialettica sindacale e ben presto divenuto banco di prova della tenuta del dialogo tra le parti.

In effetti, è intorno alla definizione, negoziata sotto l’egida dalla legge n. 146/1990, delle regole dello sciopero nel settore dei pubblici servizi, affidata all’authority all’uopo costituita, la Commissione di garanzia per gli scioperi nei servizi pubblici essenziali[6] e culminata poi nella sottoscrizione, il 23 dicembre 1998, sotto la sapiente regia del compianto Massimo D’Antona, di un “Patto delle regole nei trasporti”[7], comparto allora connotato da una esasperata conflittualità, che si snoda la stagione della “concertazione” tra Governo e parti sociali[8], inaugurata con la firma, il 22 gennaio 1983, del cosiddetto Protocollo Scotti[9] e tornata poi in auge, all’esito del duro scontro tra sindacato e Governo sulla questione della “scala mobile”[10], con la sottoscrizione del Protocollo del 23 luglio del 1993[11] che prospettava soluzioni concordate tra le parti sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo, segnata dall’assunzione da parte del Governo di un ruolo di mediazione nell’azione di contemperamento degli interessi tra impresa e lavoro; stagione esauritasi nel momento stesso della sua istituzionalizzazione voluta dal governo D’Alema e delineata nel Patto di Natale del 1998[12].

Il nuovo millennio, dismessa la prospettiva della mediazione pubblica, rivelatasi illusoria a fronte della frantumazione della rappresentanza degli interessi e, del resto, superata dal mutamento del clima politico, segna una netta inversione di rotta.

L’estrema flessibilizzazione del rapporto di lavoro, cui, nella prospettiva della “occupabilità”, emersa in sede comunitaria e declinata in ambito nazionale da Marco Biagi nel “Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia” del 2001[13], assunto a fonte ispiratrice delle politiche del lavoro dal governo Berlusconi, è la risposta alla strenua resistenza opposta, nell’immediato, al progettato ridimensionamento della tutela reintegratoria avverso il licenziamento illegittimo, che, tuttavia, si imporrà nel decennio successivo, trovando progressiva attuazione con le riforme approvate in rapida successione tra il 2012 ed il 2015, la c.d. “riforma Fornero”[14] ed il Jobs Act del governo Renzi[15], sotto la spinta dell’emergenza economica e nel dichiarato intento di sciogliere i “lacci e lacciuoli”, visti come freno alla competitività della imprese e così favorire gli investimenti produttivi.      

L’arretramento sul fronte della stabilità del rapporto sembra, addirittura, aver spezzato il filo della relazione tra impresa e lavoro, come se questo non si ponesse più quale termine necessario di interlocuzione sul piano dell’organizzazione e della gestione della produzione, ma come mera componente strutturale dell’impresa, riguardata come esclusivo punto di snodo del complessivo sistema dei rapporti socio-economici.

Non è un caso che una recente attenta dottrina[16] tenda a leggere in questa prospettiva l’art. 2086, comma 2, c.c. come di recente novellato dall’art. 375, comma 2, del d,lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, attuativo della legge 19 ottobre 201,  recante il c.d. “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, destinato ad innovare l’originaria disciplina in materia posta dalla legge fallimentare ma ancora differito quanto alla sua entrata in vigore al 16 maggio 2022.

La disposizione, nella sua rinnovata formulazione letterale, prevede che “l’imprenditore, il quale operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale” .

Ebbene tale obbligo è, dalla richiamata dottrina, ricondotto all’esigenza di salvaguardare quella capacità e continuità produttiva in cui si esprime il valore sociale dell’impresa quale luogo della produzione e così della creazione della ricchezza anche nella modalità dell’impiego di capitali e lavoro.

Un valore sociale che si afferma trovare riconoscimento e tutela nella stessa Costituzione, che, all’art. 41, garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata, per quanto, al secondo comma, preveda che questa non possa svolgersi in modo da recare danno alla libertà e dignità umana.

E, sempre nella prospettazione della citata dottrina[17], tale riconoscimento costituzionale postula, in coerenza con l’insegnamento del Giudice delle leggi  secondo cui “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile, pertanto, individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri”, un vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, che, cioè, coinvolga tutti gli interessi costituzionali rilevanti senza pretesa di assolutezza per ciascuno di essi, secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, così da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale.

Da qui la richiamata dottrina[18] trae la conseguenza per cui i diritti fondamentali degli stessi lavoratori, siano essi riconosciuti dalla Costituzione sul piano individuale o su quello collettivo, sono necessariamente soggetti ad “un test di proporzionalità e di non eccessività” rispetto al valore che la Carta attribuisce all’iniziativa ed all’attività economica.

A tale stregua l’Autore[19] sostiene il legittimarsi, in funzione della salvaguardia della continuità aziendale, in cui trova espressione il valore sociale dell’impresa costituzionalmente garantito, il carattere recessivo dei diritti del lavoratore, trovando riscontro ancora una volta nella nuova normativa relativa all’impresa insolvente.

Al riferimento al novellato art. 2086, l’Autore[20] aggiunge il richiamo alla possibilità in tale frangente di rinegoziare i debiti contributivi, di sciogliere i contratti di lavoro autonomo, di non applicare gli accordi collettivi in essere, in caso di liquidazione giudiziale, alla sospensione ex lege del rapporto di lavoro subordinato, suscettibile di riattivazione solo ove venga autorizzato l’esercizio provvisorio o di affitto dell’azienda o di un ramo di essa, terminati i quali si ha il ripristino della sospensione fino alla cessazione del rapporto disposta dal curatore o, in caso di inerzia di questi, fino al determinarsi dell’effetto legale della risoluzione di diritto del contratto ed, a fronte dell’insorgere di opportunità di circolazione dell’azienda, al venir meno, anche al di fuori dell’ipotesi di un accordo con le organizzazioni sindacali, delle garanzie lavoristiche per l’inapplicabilità, nella fase di liquidazione del patrimonio, dell’art. 2112 c.c..

Ma non solo, rinvenendo l’Autore[21] ulteriore conferma dell’assunto nella risalente giurisprudenza della Corte di Cassazione[22] sui limiti esterni del diritto di sciopero, desunti dalla necessità di tutelare, a prescindere dall’entità del danno economico che il conflitto può procurare all’imprenditore, la produttività dell’impresa, da intendersi come “salvaguardia degli elementi materiali e strutturali dell’impresa” e così della “possibilità per l’imprenditore di continuare a svolgere la sua iniziativa economica” nonché nelle più recenti pronunzie della Corte costituzionale sul caso ILVA dove l’esigenza del bilanciamento finalizzato alla salvaguardia della “continuità produttiva” dell’impresa è prospettata addirittura rispetto al diritto alla salute[23].

E non manca da parte dello stesso Autore[24] il riferimento all’ordinamento multilivello, relativamente al quale si pone in evidenza, in relazione al riconoscimento nell’ambito della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea di una tale natura alla libertà di impresa[25], la cedevolezza, in tale contesto, dei diritti sociali rispetto appunto alla libertà di impresa ed, in relazione agli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia, in particolare nelle note sentenze Viking e Laval[26] e relativamente al tema delle c.d. clausole sociali, il favore per il mantenimento della competitività del mercato comune europeo, della libera concorrenza e, più in generale, dello sviluppo economico.

La rimodulazione al ribasso dei diritti dei lavoratori viene così ad essere delineata come futura prospettiva regolativa e, addirittura, come schema euristico dell’attuale assetto normativo laddove si auspica la ridefinizione in termini di prevedibilità e calcolabilità delle condizioni e circostanze alla cui stregua condurre il controllo di proporzionalità nel bilanciamento tra libertà di impresa e diritti sociali.

La reazione a tale ricostruzione della relazione tra impresa e lavoro nell’ordinamento nazionale e comunitario, sul piano teorico, si incentra sul richiamo al terzo comma dell’art. 41 Cost., secondo cui “La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, disposizione che proietta fondati dubbi sulla valenza sociale riconosciuta in sé all’impresa nel testo costituzionale e sull’assunzione della medesima quale parametro per lo scrutinio di proporzionalità e ragionevolezza delle regole del lavoro.

Sul piano concreto al fenomeno reale della riduzione della sfera dei diritti per quel che riguarda il lavoro, che si radica in particolare nell’area dei rapporti flessibili, facendo emergere forme di più intensa soggezione ai poteri imprenditoriali oltre che di dipendenza economica, si oppone, come, in particolare, è ampiamente desumibile dall’elaborazione in sede legislativa della discutibile nozione di etero-organizzazione[27], la riconduzione di tali tipologie di rapporti allo statuto protettivo del lavoro subordinato.

Ma si tratta, con tutta evidenza, di un tentativo di forzare la prassi delle relazioni di lavoro quale si manifesta in base alla spontanea dinamica di mercato, destinato all’insuccesso, tendendo il mercato a recuperare, sul versante della produzione o su quello del lavoro, le necessarie corrispondenze tra domanda e offerta.

Appare, al contrario, opportuno, avviare, in coerenza con le ordinarie dinamiche che si svolgono nel rapporto e sul mercato, un’azione che valga a riannodare le fila della relazione tra impresa e lavoro tradizionalmente fatta di interdipendenza ed imprescindibilità.

In questa direzione si muove la proposta di recente avanzata da autorevoli studiosi con il dare alle stampe il loro “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile”[28], che, tuttavia, induce notevoli perplessità per risultare fortemente condizionata dal quadro emergenziale una rilettura del rapporto di lavoro in termini funzionali alla creazione di un ambiente di lavoro in cui le esigenze del lavoratore vengano soddisfatte in una logica di equilibrio con quelle del datore di lavoro, in modo tale che si addivenga ad un contemperamento delle esigenze di competitività aziendale con quelle di sostenibilità del lavoro,  nel presupposto che questa giovi non solo al lavoratore ma anche alla produttività ed all’efficienza dell’impresa.

Il lavoro sostenibile è in sostanza concepito come sistema lavorativo in grado di essere efficiente e di raggiungere obiettivi economici ed operativi valendo nel contempo a favorire lo sviluppo delle risorse umane e sociali, atteso che l’apprendimento basato sul lavoro, lo sviluppo, il benessere è funzionale alla crescita della capacità dei lavoratori di far fronte alle richieste del mondo esterno agevolando l’interazione paritaria ed aperta con i vari stakeholder, una migliore comprensione reciproca ed una più fattiva collaborazione.

Viene in questo quadro dato rilievo alle trasformazioni dei sistemi organizzativi e produttivi, legati al crescente utilizzo delle tecnologie.

In primo luogo, per ricollegare a quelle trasformazioni, da un lato, la perdita di valore significante dei tradizionali confini tra lavoro subordinato e autonomo a fronte  di una realtà effettuale dei modi di lavorare che incide nel duplice senso di determinare l’evolvere nella direzione dell’autonomia della prestazione resa nell’ambito di rapporti di lavoro subordinato e, per converso, l’accentuarsi dei profili di dipendenza e di debolezza economica in rapporti formalmente autonomi, dall’altro, il mutare della stessa struttura obbligatoria del contratto di lavoro subordinato, a muovere dalla sua causa, che supera il mero scambio tra lavoro e retribuzione, di marcato sapore conflittuale, per ricomprendere una relazione incentrata sul binomio collaborazione/partecipazione. E ciò in una prospettiva ricostruttiva delle posizioni delle parti del rapporto che, in piena coerenza con il concetto di sostenibilità, che riflette le direttive della solidarietà e del contemperamento tra interessi assiologici confliggenti, se impone al lavoratore di collaborare agli scopi produttivi dell’impresa ed alla gestione competitiva della stessa, delinea l’impresa come debitrice non della sola retribuzione ma altresì di un dovere di sicurezza della persona del lavoratore e di riconoscimento del suo ruolo essenziale nell’attività di produzione anche attraverso la valorizzazione delle sue competenze e capacità. 

In secondo luogo, per individuare di quelle trasformazioni la reale portata, ponendosi il dubbio che alla rivoluzione digitale non si colleghi soltanto una diversa modalità di organizzazione, subordinazione o sostituzione del lavoro umano ma che il ricorso agli algoritmi o al big data rifletta una nuova forma di capitalismo che solleciti una più radicale riregolazione delle relazioni di lavoro in funzione dell’imprescindibile riequilibrio delle posizioni di potere e del contenimento dei rischi di mercificazione e sfruttamento.

Da ultimo per arginare gli effetti che a quelle trasformazioni si ricollegano in termini di inasprimento delle disuguaglianze non solo tra insiders e outsiders, che sollecita la costruzione di un welfare in grado di offrire in questa fase di transizione un sostegno economico agli esclusi, bensì all’interno dello stesso mercato del lavoro in ragione della perdita di valore di professionalità obsolete non controbilanciate da adeguate strategie volte a favorire formazione e mobilità

Una tale prospettiva non risulta congrua rispetto all’obiettivo di una crescita coerente con l’evoluzione, anche tecnologica, di una economia di mercato, nella quale resta centrale il fattore lavoro, postulando le trasformazioni del sistema produttivo la disponibilità di know how specialistici la cui acquisizione resta fondata sullo scambio che continua a trovare misura nel valore che l’oggetto di quello strumentalmente assume secondo la tradizionale logica della domanda e dell’offerta. 

E tale centralità appare di per sè idonea a sostenere il proseguire in un percorso di valorizzazione del lavoro in termini di professionalità e di costo e, per questa via, ad inaugurare una nuova stagione dei diritti, in funzione del recupero del perdurante squilibrio che segna la relazione tra organizzazione e subordinazione.

La prospettiva auspicabile è, appunto, quella di associare al lavoro un valore di mercato reale e remunerativo, elevandone la qualità attraverso l’adeguamento delle competenze alle rinnovate esigenze specialistiche emergenti nel contesto della quarta rivoluzione tecnologica.

Una prospettiva che ripropone in termini adeguati al rinnovato contesto economico la tradizionale relazione tra impresa e lavoro, mediata da un contratto idoneo ad esprimere il reciproco riconoscimento dell’essenzialità dei due poli del rapporto in funzione di uno scambio, indotto dal perseguimento di distinti interessi, che nella parità formale insita nella corrispettività delle obbligazioni incorpora l’asimmetria sostanziale delle contrapposte posizioni di autorità e soggezione, al cui riequilibrio in favore dei lavoratori, in termini di adeguamento dello spazio di diritto al rinnovato assetto del sistema produttivo, l’opzione costituzionale assegna una assoluta priorità.

                                                                                   (Nicola De Marinis)


[1] Vedi, per tutti, G. Perone, Lo Statuto dei lavoratori, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, Aggiornamento, Estratto, Torino, 1997, 58

[2] Vedi A. Pizzorno, Scambio politico ed identità collettiva nel conflitto di classe, in C. Crouch,  A. Pizzorno, Conflitti in Europa. Lotta di classe, sindacati e Sato dopo il 1968, Milano, 1977, 407 nonché E. Rusconi, Scambio politico, in Laboratorio politico, 1981, n. 2

[3] A. Vallebona, Il lavoratore-consumatore nel diritto del lavoro attuale, in Dir. lav., 1983, I, 206

[4] Sull’effetto di istituzionalizzazione del sindacato che consegue all’adozione del criterio della maggiore rappresentatività cfr. per tutti G. Santoro Passarelli, Istituzionalizzazione della rappresentanza sindacale? e B. Veneziani, Il sindacato dalla rappresentanza alla rappresentatività, entrambi in A.I.D.La.S.S., Rappresentanza e rappresentatività del sindacato, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, Macerata, 5-6 maggio 1989, Milano, 1990

[5] Mi si consenta il rinvio a N. De Marinis, I modelli della rappresentanza sindacale tra lavoro privato e lavoro pubblico, Torino, 2002, 102 e ss.

[6] Sull’azione regolativa della Commissione si veda per tutti la puntuale analisi di cui alla monografia Conflitto e autonomia collettiva. Contributo allo studio della regolamentazione contrattuale del diritto di sciopero, Torino, 2005 da Giovanni Pino che dal suo esordio ha seguito l’attività della Commissione nella sua posizione di Capo di Gabinetto della Commissione ed al quale, nel momento del suo allontanamento per raggiunti limiti di età, è dedicato questo scritto

[7] Sia consentito ancora il rinvio a N. De Marinis, Sciopero e concertazione nei trasporti: dalla legge n. 146/90 al Patto del 23 dicembre 1998, in Mass. giur. lav., 1999, p. 352.

[8] Per un’analisi generale delle prassi della concertazione sociale vedi R. De Luca Tamajo, Garantismo legislativo e mediazione politico-sindacale: prospettive per gli anni ’80, in Riv. it. dir. lav., 1982, I, 30; F. Carinci, Il diritto del lavoro fra neo-corporativismo e neo-istituzionalismo, in Pol. dir., 1983, I, 7; T. Treu, L’intervento del sindacato nella politica economica, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1983, 77; De Marco, La negoziazione legislativa, Padova, 1984; G. Giugni, Concertazione sociale e sistema politico in Italia, in Giorn. dir. lav. rel. ind, 1985, 53; G. Vardaro (a cura di), Diritto del lavoro e corporativismi in Europa: ieri e oggi, Milano, 1988; Id., Corporativismo e neo-corporativismo, in Dig. Disc. Priv. Comm., IV, 1989, 177; G. Ghezzi, Effetti sul diritto del lavoro e riflessi costituzionali dei procedimenti di concertazione sociale, in Boll. Inf. Cost. Parl., 1993, 55 e ora in Id., Dinamiche sociali, riforma delle istituzioni e diritto sindacale, Torino, 1996, 196, 197; Id., Accordi interconfederali e Protocolli d’intesa, in Enc. dir. (Aggiornamento), Milano, 1999, I; L. Bellardi, Concertazione e contrattazione. Soggetti, poteri e dinamiche regolative, Bari, 1999; La concertazione tra parti sociali e istituzioni, Convegno in memoria di Massimo D’Antona, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, Roma, 14 ottobre 1999, con relazioni di F. Carinci, P. Capotosti, M. D’Alberti, M. Ferrera, E. Ghera, A. Maresca; AA.VV., Parlamento e concertazione, in Quad. Arg. dir. lav., 1999, n. 3; F. Carinci, Storia e cronaca di una convivenza: Parlamento e concertazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2000, I, 35

[9] A riguardo vedi L. Mariucci, T. Treu, G. Ghezzi, F. Carinci, Il Protocollo di gennaio, in Pol. Dir., 1983, 187; G. Perone, L’accordo sul costo del lavoro: problemi e prospettive, in Dir. lav., 1983, I, 91; E. Ghera, Accordo trilaterale: la via italiana alla politica dei redditi, in Mondoperaio, 1983, 17;

[10] Il riferimento è al “taglio” della contingenza, ridotto ad un semestre, che viene inserito nel d.l. 15 febbraio 1984, n. 10, reiterato per scadenza dei termini nel d.l. 17 aprile 1984, n. 70 e convertito con modifiche , dopo una dura battaglia parlamentare, nella lgge 12 giugno 1984, n. 219: a riguardo cfr.  U. Romagnoli, Lo strappo di febbraio, in Pol. dir., 1984, 305; G. Ghezzi, G. Ferraro, L. Mariucci, T. Treu, Scala mobile e immobilismi, ivi, 1984, 336; A. Cessari, La crisi sindacale del febbraio 1984, in Riv. it. dir. lav., 1984, I, 213; C. Assanti, Il taglio della scala mobile. Un decreto che colpisce la contrattazione, in Dem e dir., 1984, 19; L. Mariucci, Non è più uguale a ieri il sindacato del dopo decreto, ivi, 1984, 21; P. Sandulli, Il costo del lavoro dall’accordo al decreto, in Dir. lav. 1984, I, 17; G. Giugni, Concertazione sociale e sistema politico in Italia, cit.; T. Treu, Relazioni industriali (voce per un’enciclopedia), in Giorn. dir. lav. rel. ind. 1986, 475;

[11] Cfr. G. Giugni, L’accordo sul costo del lavoro un’intesa densa di novità, in Lav. inf., 1993, n. 13, 5; F. Carinci, Il Protocollo d’intesa 23 luglio 1993 fra storia e cronaca, in Riv. pol. ec., 1993, n. 10, 155.

[12] Vedi a riguardo gli Autori citati alla nota 8

[13] Trattasi, com’è noto, del documento programmatico (pubblicato dal Ministero del Lavoro nell’ottobre 2001) relativo alle politiche del lavoro dell’appena insediato Governo di centro-destra, che di lì a poco veniva tradotto in un disegno di legge approdato al Senato il 15 novembre 2001 con il numero 848, da cui scaturirà, dopo un lungo braccio di ferro con il sindacato, fortemente contrario alla prevista revisione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, superato, dopo lo stralcio dell’ipotizzata modifica, ma scontando, comunque, una forte lacerazione interna al sindacato per la perdurante opposizione della CGIL alla residua proposta, con la sottoscrizione da parte delle sole Cisl e Uil  del “Patto per l’Italia” del 3 luglio 2002, la legge delega n. 30/2003. Per una analisi dei contenuti del Libro Bianco e del successivo cammino della riforma vedi  T. Treu, Il Libro Bianco sul lavoro e la delega del governo, in Dir. Rel. Ind., 2002, pag. 115; G. Ghezzi, Introduzione, in AA.VV. Lavoro, ritorno al passato. Critica del Libro Bianco e della legge delega al Governo Berlusconi sul mercato del lavoro, Roma, 2002; F. Carinci e M. Miscione (a cura di), Il diritto del lavoro dal “Libro Bianco” al Disegno di legge delega 2002, Milano, 2002; G. Ferraro, La flessibilità in entrata alla luce del Libro Bianco sul mercato del lavoro, in Riv. It. Dir. Lav., 2002, I, pag. 423; L. Mariucci, La forza di un pensiero debole. La critica del “libro bianco del lavoro”, in Lav. Dir., 2002, n. 1, pag. 3; M. Rusciano, A proposito del Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia, in www.unicz.it/lavoro, 2002; P. Campanella, Il Libro Bianco ed il disegno di legge delega in tema di mercato del lavoro, in Lav. Giur. 2002, n. 1, pag. 5; V. Pinto, R. Voza, Il Governo Berlusconi e il diritto del lavoro: dal Libro Bianco al disegno di legge delega, in Riv. Giur. Lav. 2002, I, pag. 453; V. Pinto, Lavoro e nuove regole. Dal libro bianco al decreto legislativo 276/2003, collana Formazione ISF/CGIL, Roma, 2004.

[14] A riguardo vedi F. Carinci, M. Miscione (a cura di), Commentario alla Riforma Fornero, in Dir. Prat. Lav., Suppl. al n. 33, 2012, 137; M. Magnani, M. Tiraboschi, La nuova riforma del lavoro, Commentario alla legge 28 giugno 2012, n. 92, Giuffrè, Milano, 2012; A. Vallebona, La riforma del lavoro 2012, Giappichelli, Torino, 2012  T. Treu, Flessibilità e tutele nella riforma del lavoro, in Dir. lav. rel. ind., n. 1/2013, S. Brusati, E. Gragnoli, Una prima esperienza sulla nuova disciplina dei licenziamenti. Seminario in onore di Michele De Luca, in Quad. Arg. dir. lav., n. 12, 2014

[15] In merito cfr. E. Ghera, D. Garofalo, Le tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Jobs Act, Commento ai decreti legislativi 4 marzo 2015, nn 22 e 23, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, Bari, 2015; L. Fiorillo – A. Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi. Decreti legislativi 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, Torino, 2015, G. Zilio Grandi, M. Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Padova, 2016; F. Basenghi, A. Levi (a cura di), Il contratto a tutele crescenti, Milano, 2016

[16] Il riferimento è a M. Marazza, Il diritto del lavoro per la sostenibilità del valore sociale dell’impresa, relazione al Congresso A.I.D.La.S.S., Il diritto del lavoro per una ripresa sostenibile, Taranto, 28, 29, 30 ottobre 2021

[17]Il riferimento è a M. Marazza, op. ult. cit., p. 7 della bozza provvisoria pubblicata sul sito dell’A.I.D.La.S.S

[18] Si cita ancora M. Marazza, op. ult. cit., p. 7

[19] Così M. Marazza, op. ult. cit., p. 7

[20] Vedi M. Marazza, op. ult. cit., p. 8

[21] Cfr. M. Marazza, op. ult. cit., p. 11

[22] Cfr. Cass. 30 gennaio 1980, in Foro It., 1980, I, 25

[23] Così espressamente Corte cost. 23.3.2018, n. 58

[24] M. Marazza, op. ult. cit., p. 21 e ss.

[25] Cfr. art 16 CDFUE

[26] Trattasi rispettivamente delle decisioni CGUE 11 dicembre 2007, C-438/05, Viking e 18 dicembre 2007, C-341/05, Laval un Patneri, su cui si vedano gli ampi riferimenti in M. Marazza, op. ult. cit,, alla nota 75 della bozza  

[27] Vedi art. 2, d.lgs. n. 81/2015, nel testo modificato dal d.l. n. 101/2019 convertito con modificazioni nella legge n. 128/2019 e 15, l. n. 81/2017. Inserisce la nuova nozione in quella che chiama “saga denominata vis espansiva del diritto del lavoro” O. Mazzotta, Lo strano caso delle “collaborazioni organizzate dal committente”, in Labor, Il lavoro nel diritto, 1-2, 2016. Alla rinnovata tendenza espansiva delle tutele giuslavoristiche fa riferimento anche R. De Luca Tamajo, La sentenza della Corte d’Appello di Torino sul caso Foodora. Ai confini tra autonomia e subordinazione, in LavoroDiritti Europa, n. 1/2019

[28] Il riferimento è a B. Caruso, R. Del Punta e T. Treu autori del testo pubblicato in csdle.lex.unict.it 20 maggio 2020