Articolo già pubblicato nel Bollettino ordinario ADAPT del 12 maggio2010 n. 18
L’emanazione del d.lgs. n. 150 del 27 ottobre 2009 (c.d. riforma Brunetta) ha avviato un percorso estremamente ampio ed impegnativo di riforma del lavoro pubblico.
Una delle chiavi di volta su cui si incentra l’intero apparato della riforma è quella relativa alle progressioni del personale interno che, fino a prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009, chiamavamo “verticali”, e che ora sono denominate “di carriera”. Di talché, in via di prima approssimazione, va evidenziato che il legislatore del 2009, con il d.lgs. n. 150, ha introdotto un apparato normativo estremamente articolato, volto a riformare profondamente il pubblico impiego anche attraverso la modifica dell’assetto dei rapporti sin dalla fase dell’assunzione (rectius della selezione).
In particolare, è stato previsto quale sistema esclusivo per l’accesso dei dipendenti interni alle categorie (o aree) superiori quello del concorso pubblico, con la sola possibilità di introdurre una riserva di posti per il personale interno in possesso del titolo di studio richiesto per l’accesso dall’esterno e nel rispetto del limite del 50% dei posti banditi. Orbene, sebbene a tali progressioni il legislatore abbia legato i più radicali effetti di cambiamento in termini di maggiore selettività delle procedure concorsuali e di prospettive di carriera dei pubblici dipendenti, è proprio in riferimento ad esse che il dettato normativo presenta dei gravi ed irrisolti problemi di coordinamento relativi al momento di entrata in vigore delle relative disposizioni. Invero, la questione interpretativa in discorso necessita di una preliminare disamina delle disposizioni introdotte con la riforma in materia di progressioni verticali:
• l’art. 24 del d.lgs. n. 150/2009 ha previsto che «le amministrazioni pubbliche, a decorrere dal 1° gennaio 2010, coprono i posti disponibili nella dotazione organica attraverso concorsi pubblici» destinando, per la progressione di carriera, una «riserva non superiore al cinquanta per cento dei posti a favore del personale interno, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di assunzioni» ossia l. n. 449/1997, d.lgs. n. 165/2001 e altre norme in materia di assunzioni contenute nelle Leggi Finanziarie ed in altre leggi speciali;
• l’art. 62 del d.lgs. n. 150/2009 ha modificato l’art. 52 del TU del pubblico impiego n. 165/2001 il cui testo novellato prevede che «Le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso»;
• l’art. 31 del d.lgs. n. 150/2009, dopo aver sancito al comma 1 il principio secondo cui «gli enti locali adeguano i propri ordinamenti ai principi contenuti […] [nell’articolo] 24, commi 1 e 2», al comma 4 dispone che «Nelle more dell’adeguamento di cui al comma 1, da attuarsi entro il 31 dicembre 2010, negli ordinamenti delle regioni e degli enti locali si applicano le disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto».
Orbene, in base al combinato disposto dell’art. 24 del d.lgs. n. 150/2009 e dell’art. 52 del TU n. 165/2001 come modificato dal d.lgs. n. 150/2009, è possibile individuare, in via di prima approssimazione, i seguenti vincoli imposti dal legislatore in materia di progressioni di carriera:
1) l’obbligatorietà del concorso pubblico;
2) la possibilità della riserva per gli interni non superiore al 50% dei posti messi a concorso;
3) il possesso anche da parte del personale interno del titolo di studio previsto per l’accesso dall’esterno.
È quindi evidente che, in base a tale intervento legislativo, le progressioni verticali dovranno svolgersi secondo le regole del concorso pubblico ed il dipendente potrà parteciparvi solo se in possesso del titolo di studio previsto per l’accesso dall’esterno. Tale evenienza suggerisce di porre l’attenzione sull’effetto di radicale superamento delle regole sino ad oggi applicate in materia di progressioni interne, in quanto le nuove norme di legge non consentono di continuare ad applicare la regola contrattuale che fino ad oggi ha consentito di sostituire il possesso del titolo di studio richiesto dall’esterno con il possesso del titolo di studio immediatamente inferiore accompagnato da un’anzianità quinquennale o triennale.In altri termini, con l’entrata in vigore delle nuove disposizioni, il dipendente con profilo di istruttore tecnico (categoria C) potrà partecipare alla progressione di carriera per diventare istruttore direttivo tecnico (categoria D) soltanto qualora abbia conseguito almeno la c.d. laurea breve.
È allora ben evidente che, in relazione al requisito del titolo di studio richiesto anche al personale interno per la partecipazione ai concorsi per l’accesso alle categorie superiori, sarà fondamentale l’attuazione dell’art. 26 del d.lgs. n. 150/2009 in base al quale le amministrazioni «valorizzano […] le professionalità sviluppate dai dipendenti interni e a [tal fine] […] promuovono l’accesso privilegiato dei dipendenti ai percorsi di alta formazione in primarie istituzioni educative e nazionali»: infatti, in base a tale disposizione potranno essere stipulate convenzioni tra le P.A. e le università che facilitino il conseguimento da parte dei pubblici dipendenti dei titoli di studio richiesti dai bandi di concorso.
Inoltre, mediante la previsione del metodo del concorso pubblico viene richiesto anche ai dipendenti interni il superamento di procedure di effettiva selettività, con la conseguenza che non potrà certamente più aver luogo l’espletamento delle forme semplificate di concorso fino ad oggi utilizzate in chiara elusione del disposto costituzionale.
Peraltro, l’art. 24 si completa con l’ulteriore previsione – che giustifica la collocazione di tale disposizione nel Titolo II intitolato Misurazione, valutazione e trasparenza della performance – in base alla quale la circostanza che un dipendente che abbia avuto per almeno 3 anni consecutivi ovvero 5 non consecutivi una valutazione positiva «costituisce titolo rilevante ai fini della progressione di carriera»; invero, ciò obbligherà le PA ad inserire nei propri regolamenti e nei bandi di concorso la previsione di punteggi ulteriori da attribuire in sede di valutazione dei titoli ai dipendenti in possesso di tali requisiti.
Di indubbio rilievo sono altresì le conseguenze applicative del limite del 50% fissato per la riserva dei posti agli interni: a titolo esemplificativo si consideri che, con l’entrata in vigore delle disposizioni in esame, la progressione di carriera dalla categoria C alla categoria D di un qualsivoglia dipendente appartenente al comparto enti locali potrà aver luogo esclusivamente a seguito di un concorso pubblico ad almeno 2 posti, con riserva al personale interno necessariamente non superiore ad un posto (corrispondente al 50%). Corrispondentemente, ove i posti messi a concorso siano 3, agli interni potrà esserne riservato soltanto uno, mentre se il posto messo a concorso è uno non potrà essere prevista alcuna riserva di posti in favore del personale interno.
In relazione a ciò, autorevole dottrina ha evidenziato che le progressioni verticali sono destinate ad essere ridotte drasticamente nei piccoli e medi comuni: è infatti del tutto improbabile che in un ente di ridotte dimensioni si possa avviare una procedura concorsuale per l’assunzione contemporanea di 2 o più persone con uno stesso profilo professionale. Similmente, negli enti medio-grandi la novella del 2009 di fatto determinerà una forte contrazione del numero delle progressioni verticali (in tal senso A. Bianco, Al via le nuove regole sul pubblico impiego, in Speciale Riforma Brunetta, Guida al Pubblico impiego, 2009, n. 11).
Può dunque affermarsi che il raggiungimento degli obiettivi prefissati dal legislatore dipenderà in buona parte dal recepimento, nei termini indicati dalla legge, del nuovo sistema dell’accesso al pubblico impiego in relazione al quale «il tema delle progressioni di carriera è stato oggetto di una particolare disciplina volta a contenere il fenomeno degli organici a “piramide rovesciata”, generatisi dopo anni di progressioni […] favorite da una contrattazione attenta esclusivamente alle aspettative di miglioramento economico [e di carriera] dei dipendenti e a discapito delle esigenze di buon funzionamento delle amministrazioni» (F. Verbaro, La gestione del rapporto di lavoro cambia volto, in Guida al Pubblico Impiego, 2009, n. 11, 24).
In relazione a ciò, va evidenziato che le procedure di reclutamento introdotte con la riforma in materia di progressioni di carriera impongono un attento adeguamento dei regolamenti interni in materia di accesso agli impieghi nelle PA..
In particolare, a questo proposito è stato acutamente osservato che il sistema introdotto comporta diverse novità:
• la presenza di un bando unico che consenta l’adeguato e contemporaneo accesso dall’esterno e dall’interno;
• la necessità per le PA di programmare i propri fabbisogni del personale tenendo conto delle risorse finanziarie necessarie per assumere al contempo interni ed esterni;
• l’esigenza di chiarire se la riserva agli interni possa essere riferita solo alla qualifica immediatamente inferiore, oppure – come appare più condivisibile in considerazione del requisito del titolo di studio richiesto – possano essere ammessi anche i soggetti con inquadramento inferiore.
Ciò posto, non può essere taciuto che le disposizioni in esame hanno dato luogo ad una serie di problemi interpretativi generando questioni – tutt’oggi rimaste insolute – relative alla possibilità per gli enti locali di espletare nell’anno 2010 concorsi riservati al solo personale interno.
La questione interpretativa, come innanzi accennato, è ingenerata dall’antinomia tra la data contenuta nell’art. 24 del d.lgs. n.150/2009 (1° gennaio 2010) e la data prevista dall’art. 31, comma 4, del medesimo decreto per l’adeguamento degli ordinamenti locali (31 dicembre 2010).
In relazione a ciò, una parte della dottrina ha ritenuto corretto individuare quale termine di entrata in vigore delle nuove disposizioni la data del 31 dicembre 2010, basandosi sul presupposto del carattere di norma generale dell’art. 24 applicabile alle P.A. in genere, e del carattere di specialità rivestito dall’art. 31 che, in quanto norma speciale dettata appositamente per gli enti locali e le Regioni, avrebbe carattere prevalente rispetto all’art. 24.
Da ultimo, le linee guida espresse dall’Anci per l’applicazione del d.lgs. n. 150/2009 negli enti locali hanno tentato di dare una soluzione al problema interpretativo in esame sostenendo che la data indicata dall’art. 31, comma 4 (ossia il 31 dicembre 2010), «costituisce il termine ultimo dell’adeguamento da parte degli Enti Locali a tutte le disposizioni recate dal Titolo III, ivi comprese […] quelle di cui all’art. 24». Pertanto, l’Anci si è spinta fino a ritenere che possano essere realizzate le eventuali progressioni già programmate e autorizzate in sede di programmazione triennale ed annuale dei fabbisogni di personale alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009. Infine, l’Anci ha affermato che non è stato abrogato espressamente l’art. 91, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000 secondo cui «Gli enti locali che non versino nelle situazioni strutturalmente deficitarie possono prevedere concorsi interamente riservati al personale dipendente, solo in relazione a particolari profili o figure professionali caratterizzati da una professionalità acquisita esclusivamente all’interno dell’ente».
Invero, sebbene le linee guida dell’Anci costituiscano una indispensabile base per l’applicazione delle nuove disposizioni nell’ambito dell’ordinamento locale, un’esegesi più attenta ai principi su cui è incardinata la riforma del lavoro pubblico ha evidenziato che esse non sono da ritenersi condivisibili.
In particolare, è stato evidenziato dalla più autorevole dottrina che le indicazioni sulle progressioni verticali espresse dall’Anci, secondo cui le progressioni verticali per gli enti locali sarebbero ancora possibili fino al 31dicembre 2010, appaiono sorrette da argomentazioni prive di pregio giuridico per le seguenti ragioni:
1) la novella del d.lgs. n. 150/2009 priva di ogni validità giuridica la programmazione triennale delle assunzioni che abbia previsto per l’anno 2010 i concorsi interni. In proposito si deve rilevare che il programma delle assunzioni è un atto amministrativo che, in quanto tale, deve rispettare il principio di legalità e di subordinazione alla legge, la quale ha chiaramente abolito le progressioni verticali. Del pari, non è da ritenersi applicabile ai programmi del fabbisogno del personale il principio del tempus regit actum, il quale consentirebbe, tutt’al più, di mantenere in vita le procedure relative alle progressioni verticali già avviate alla data del 1° gennaio 2010;
2) in riferimento alla mancata abrogazione espressa dell’art. 91, comma 3, del d.lgs. n. 267/2000 è opportuno ricordare che, ai sensi dell’art. 15 delle preleggi, le leggi ordinarie possono essere abrogate da leggi posteriori non solo per dichiarazione espressa del legislatore ma anche mediante un’abrogazione tacita, ossia «per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore» (in tal senso L. Olivieri, Riforma Brunetta: le rivendicazioni dell’Anci non ne escludono la completa applicazione agli enti locali, in La settimana degli Enti Locali 9/2/2010, Maggioli Editore). In proposito occorre altresì evidenziare che la disposizione di cui all’art. 1, comma 4, del TUEL, in base alla quale tutte le modifiche al predetto d.lgs. n. 267/2000 devono essere disposte in forma espressa e non sono consentite abrogazioni tacite, appare contrastante con i principi cardine del sistema delle fonti del nostro ordinamento, secondo cui tutte le leggi ordinarie hanno la stessa forza. Peraltro, in base al tenore letterale dello stesso art. 91, pare corretto ritenere che, quand’anche tale disposizione fosse ancora vigente, comunque limiterebbe la possibilità dei concorsi interni alla dimostrazione di una «professionalità acquisita esclusivamente all’interno dell’ente» generando un onere di probatio diabolica, impossibile da assolvere in riferimento alla stragrande maggioranza dei profili professionali che compongono la pianta organica di qualsiasi ente locale (si pensi agli agenti di Polizia municipale, assistenti sociali, ragionieri, istruttori amministrativi, istruttori tecnici e così via), con l’eccezione di rarissime figure molto specifiche.
Alla luce delle considerazioni sin qui addotte, appare condivisibile l’opinione di tale autorevole dottrina secondo cui l’operazione ermeneutica operata dall’Anci in riferimento alle progressioni verticali soltanto previste nei programmi del fabbisogno di personale oltre ad apparire guidata dall’intento politico di consentire una sorta di negoziato contra legem con le organizzazioni sindacali – evidentemente finalizzata ad evitare la frustrazione delle aspettative imprudentemente create tra i dipendenti interni – risulta essere di fatto estremamente pericolosa, in quanto espone «i dirigenti a rilevanti responsabilità personali, civili ed amministrative» (L. Olivieri, Riforma Brunetta: le rivendicazioni dell’Anci non ne escludono la completa applicazione agli enti locali, in La settimana degli Enti Locali 9/2/2010, Maggioli Editore).
Tutt’al più, nel tentativo di fornire delle chiavi interpretative per comprendere quale possa essere nell’attuale fase di transizione lo spazio effettivo di applicazione della riforma negli ordinamenti locali, si potrebbe ritenere in relazione alle progressioni verticali in itinere (ossia quelle il cui bando sia stato indetto prima del 31 dicembre 2009) che, sulla base del principio della lex specialis costituita dal bando di concorso, la selezione, anche se svolta successivamente al 1° gennaio 2010, sarà disciplinata dalla normativa previgente, non essendo applicabili le modifiche legislative intervenute successivamente alla pubblicazione del bando (in tal senso A. Bianco, Al via le nuove regole sul pubblico impiego, in Speciale Riforma Brunetta, Guida al Pubblico impiego, 2009, n. 11).
Alla luce dei problemi di coordinamento normativo sin qui evidenziati e della mancanza di norme transitorie, è indubitabile la grave condizione di incertezza in cui versano gli enti locali, il cui unico rimedio non può che essere individuato nell’urgente emanazione di atti di interpretazione autentica da parte del legislatore, onde scongiurare una inaccettabile applicazione difforme della riforma del pubblico impiego sul territorio nazionale.
Dunque, soltanto a seguito di tale – più che doveroso – intervento chiarificatore, gli attori coinvolti in questo epocale processo di riforma delle P.A. italiane potranno interpretare e svolgere correttamente il proprio ruolo, in modo da riaffermare la fiducia della collettività nell’apparato burocratico del Paese e, soprattutto, nel «lavoro pubblico [che], anche se privatizzato, ha un’identità propria che va riconosciuta, sottolineata e valorizzata […]. Un’identità che deriva dalla finalità pubblica della funzione» (A. Naddeo, Lavoro pubblico, un’identità ritrovata, in Guida al Pubblico Impiego, 2009, n. 11, 4) costituzionalmente non solo imposta ma anche garantita.
Dottoranda di ricercaScuola Internazionale di Dottorato in formazione della persona e diritto del mercato del lavoro Adapt – Università degli studi di Bergamo
* Si segnala che le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autrice e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’amministrazione di appartenenza.